Bach l’architetto, Mozart il bambino, Schubert il viandante. Nel secolo dei totalitarismi, nel secolo del nichilismo bolso, il rapporto quasi connaturale che la musica ha con l’infinito non poteva più avere né l’organicità del primo, né la fluidità mozartiana, né il virile languore di Schubert. Nessuno, credo, ha dato voce a questo secolo buio come Dmitrij Šostakovic.
Col totalitarismo – quello sovietico, nel suo caso – ha dovuto fare i conti per tutta la vita; non ha mai avuto il coraggio di esserne un aperto oppositore, si è anzi prestato a comporre brani per film esaltanti il regime. Eppure la musica in lui premeva potentemente per esprimersi nella sua natura, che non risponde a dettami ideologici e deborda ogni limitazione precostituita. Šostakovic sapeva bene che un qualsiasi funzionario zelante avrebbe potuto stroncargli la carriera con una malevola recensione (a volte ci è andato vicinissimo) e stava guardingo. Questa stessa paura e la consapevolezza della meschinità di cederle han fatto grandissime le pagine musicali in cui il compositore poteva esprimersi più liberamente, quelle da camera ad esempio.
In Šostakovic troviamo una musica in cui il dramma è sempre sull’orlo della tragedia, dell’abisso dell’annientamento. Come se la persona fosse sempre di fronte ad una minaccia incombente, come se tutte le forze sociali, naturali, psicologiche si coalizzassero per costituire un’infernale macchina, il cui unico scopo è quello di stritolare la persona. Un esempio celebre c’è nel primo movimento della settima sinfonia, la Leningrado. Accompagnata dal rullo di un tamburello, inizia una melodia che si ripete in continuazione aggiungendo sempre un nuovo strumento e aumentando di intensità (un po’ come il Bolero di Ravel, ma con ben altra angosciosità). Fino a che tutta l’orchestra grida – è proprio il caso di dirlo – quella melodia per poi farla sprofondare in accordi assordanti. È facile pensare all’avanzata della macchina bellica tedesca che ha posto l’assedio a Leningrado e questa è la motivazione «ufficiale» dell’opera. Ma è facile anche leggervi il meccanismo stritolante della vita sovietica e, ancora più al fondo, la percezione dello stesso infinito destino umano come inesorabile sprofondare nella catastrofe.
C’è un altro elemento che rende inconfondibile la musica di Šostakovič. È stato definito come sarcasmo, ironia amara. È che in moltissime sue opere – sia sinfoniche che da camera – si trovano dei movimenti interi o comunque dei brani che hanno l’andamento di una burla. All’inizio potrebbe sembrare una forma di alleggerimento, ma poi si capisce che quell’apparente scherzo è una denuncia. L’autore vuol sbeffeggiare la maschera delle presunzioni ideologiche, evidenziare la ridicola goffaggine di personaggi potenti ma vuoti e l’inconsistenza di chi tronfiamente si presenta sicuro di sé e del proprio potere. È un modo per sfidare l’omologazione al regime. Che spesso non se n’è neppure accorto. Ce ne rendiamo ben conto noi, ascoltando oggi quella musica ed accorgendoci che la maschera ghignante del potere possiamo non solo subirla, ma anche indossarla in ogni rapporto: quando quel rapporto non ha più l’attimo di gratuito e devoto stupore che – solo – può opporsi al potere.