«Il Padreterno, svolazzante tra i cieli nella sua veste rosa, è ancora accettabile. Ma quell’Adamo tutto nudo, le Sibille che sembrano dei lottatori e i corpulenti Profeti dai possenti muscoli proprio non vanno bene. Troppa carne». Qualcuno dei primi ammiratori della volta della Cappella Sistina –inaugurata proprio cinquecento anni fa– deve aver avuto pensieri simili a questo. Effettivamente la potenza espressiva degli affreschi michelangioleschi ripropone con vigore una delle caratteristiche più strane e qualificanti della religione cristiana e di quella cattolica in modo del tutto particolare. Quanto più, infatti, un acuto spirito religioso percepisce la divinità nella sua sostanziale diversità dall’umano, tanto più è portato a relegarla nel regno dell’invisibile. Non per nulla le altre due grandi religioni monoteiste, ebraismo e islam, non ammettono in nessun modo delle rappresentazioni iconiche di Dio. Nel cristianesimo questo è stato possibile – non senza lotte durissime, come quella per combattere l’eresia iconoclasta – in forza dello straordinario evento di un Dio che assume la carne umana e che, per ciò stesso, diviene rappresentabile. Non solo lui, il Figlio, ma, per analogia, anche la divinità stessa e tutte le sue azioni; come ad esempio quella di creare il mondo, da cui Michelangelo prende il via per la sua narrazione figurata.
Da qualche secolo questa capacità di rendere visibile nella carne il divino e le sue azioni è andata in crisi. Basta vedere l’arte sacra delle chiese moderne: niente corpi riconoscibili, niente paesaggi, ambientazioni storiche, ricostruzione di scene concrete. Al massimo ci sono figurine stilizzate, lontanissime dalle forme del reale, e una caterva di simboli più o meno criptici. È il sottoinsieme di un fenomeno culturale che è stato chiamato «escarnazione» (l’opposto dell’incarnazione). La modernità tende a considerare la conoscenza una pura questione di idee e a ritenere che «per conseguire una conoscenza chiara e distinta delle cose è necessario distanziarsi dalla comprensione incarnata» (Charles Taylor). Questa mentalità è largamente penetrata anche in ambito ecclesiale. Proviamo a pensare cosa istintivamente significhi per noi meditare un testo di carattere religioso, mettiamo una pagina della Bibbia.
L’approccio che ci viene più normale è quello di cercare di capire i concetti che lì sono espressi e poi di valutare se ci sembrano convincenti o meno. Tutto l’aspetto concreto, «carnale» della vicenda si giocherà, al massimo, nelle successive scelte di comportamento che decideremo di mettere in atto se i concetti capiti ci avranno convinto. L’autentica meditazione cristiana, invece, consiste anzitutto nell’imbattersi nel racconto di un fatto che è successo; per questo i grandi maestri della spiritualità invitano a immaginarsi la scena, a mettersi nei panni di Giovanni che reclina la testa sul capo di Cristo durante l’ultima cena o in quelli di Abramo che alza il coltello per sacrificare l’unico figlio.
È tutto un altro modo di procedere. E vale anche per testi che non sono di carattere narrativo ma discorsivo, come un testo di catechesi. Se è un buon libro non ci pone di fronte anzitutto all’esposizione di idee ben congegnate, ma all’esperienza di chi lo ha scritto. Allora si tratta di immedesimarsi con tale esperienza, non di limitarsi all’apprendimento del suo esprimersi teorico. In tal modo pagine che resterebbero sostanzialmente opache e monocrome si dipingono delle variegate sfumature di una umanità viva e pulsante, ricca e drammatica. Come fossero volte michelangiolesche in miniatura.