Un nuovo ciclo della vita liturgica si è aperto con l’Avvento. Il che è come dire che di nuovo uno specifico e tipico sguardo alla vicenda di noi uomini nella storia viene riproposto ad ogni persona ragionevole, anche se non particolarmente devota. La liturgia, da molti secoli, sintetizza tale sguardo nell’inno Rorate coeli desuper, che non è una bonaria pacca d’incoraggiamento sulle spalle, né un comodo tranquillante. Anzi, l’approccio iniziale è quasi violento: Sion deserta facta est, Jerusalem desolata est. La città degli uomini è un deserto, la dimora stessa di coloro che dicono di vivere insieme in nome del Santo si è trasformata in una landa priva di vita (come non pensare alla «desertificazione» evocata da Benedetto XVI all’inizio del Sinodo?), una landa dove ognuno vive de-solato, abbandonato alla solitudine.

Tutta questa distruzione, questa situazione di crisi prossima alla morte non è causata da contingenze esterne, da fattori di cui si possa incolpare qualcun altro. L’inno è chiaro: peccavimus, la radice del desolante deserto è in una colpa, in un essere diventati immundi. È perché abbiamo seguito il falso che siamo caduti, esattamente come le foglie dell’autunno che sta finendo, ed esattamente come quelle foglie sperimentiamo l’inconsistenza di chi è trascinato qua e là da ogni venticello. Il profeta Isaia – lo stesso da cui sono tratte le parole di questo inno – ha un’altra potente immagine a riguardo: quella della vigna amorevolmente piantata, curata, innaffiata dal contadino e che, invece di produrre buona uva da vino, ha generato solo rovi e bacche amare. Cos’altro avrei dovuto fare per te? si lamenta il contadino; mi sono dedicato a te con ogni premura e tu non hai corrisposto. Allora ti lascerò in preda alle conseguenze delle tue scelte sbagliate e tu, vigna pur amata, sarai devastata.

Ma un’ultima risorsa rimane alla vigna infedele diventata sterpaglia inospitale: Vide, Domine, afflictionem populi tui. Può gridare al vignaiolo di non abbandonarla del tutto, può chiedere di inviare qualcuno che, caricandosi del male che lei ha fatto e della schiavitù che ne è derivata, la liberi.

È l’insistente domanda del ritornello dell’inno: Rorate coeli desuper et nubes pluant justum. Quel rorate è difficilmente traducibile: rimanda alla rugiada mattutina che posandosi dolcemente anche sul più arido deserto riesce a farlo fiorire; una rugiada che si trasforma in pioggia tonificante. E quella pioggia è il Giusto, cioè chi non ha peccato, chi non è connivente con la desolazione, chi è capace di costruire e di far fruttificare.

L’ultima strofa dell’inno non è più parola dell’uomo, ma risposta del Santo di Israele. Ed è una parola di consolazione: Consolate, consolate il mio popolo. Consolazione perché a quel grido che sgorga dalla consapevolezza del proprio peccato Dio risponde mandando in fretta – cito – il Salvatore. E come potrebbe inviarlo se l’uomo non riconoscesse di avene bisogno? Ecco, allora, l’invito divino a non stare a ripensare continuamente ai propri desertificanti errori, a non lasciarsi consumare dalla deprimente tristezza – moeror -, a guardare l’orizzonte, dove sta sorgendo la fulgida Stella del mattino.