“Tu scendi dalle stelle/ o re del cielo / e vieni in una grotta / al freddo e al gelo…”. Bastano poche note e una manciata di parole per costruire un bozzolo di calore, un nido di speranza, una disposizione alle cose buone, una spinta alla fratellanza con i vicini ed i lontani. E’ la magia del Natale che si rinnova ogni anno nei cuori non induriti delle persone di buona volontà. Persone che non vogliono imporre nulla a nessuno, né impedire ad altri di celebrare la loro fede nei modi da loro desiderati, ma che vogliono vivere, insieme a chi li condivide, i riti e gli appuntamenti che fanno parte della loro storia millenaria. Mio padre, giovanissimo fante, non ancora ventenne, che marciva al fronte, nel fango di una trincea della prima guerra mondiale, venne punito con 15 giorni di carcere. L’imputazione era: “Fraternizzazione con il nemico”.
Era colpevole di aver gridato più volte, nella notte di Natale, in tedesco, alla trincea austriaca che distava meno di 50 metri dalla sua: “Frohe Weihnachten!” “Buon Natale!” Per lui quel “Buon Natale!” era un augurio e una speranza. In quella notte del 1916, così fredda, così buia, ragazzi come lui, strappati violentemente dalle loro case per accontentare le case regnanti europee che stavano bisticciando, e mandati ad ammazzarsi, non potevano evitare di intenerirsi. Certo, quell’augurio non avrebbe fermato, purtroppo, nemmeno quella notte, le pallottole. Ma comunicava una speranza, un intenerimento, una fratellanza, nonostante tutto. Mi affascinava questa storia del “Buon Natale” in tedesco (furono le prima parole in tedesco che appresi quando andavo ancora all’asilo). Mi sembrava, quella, una favola.
Capitata però, non in regni lontani o in epoche remote, ma a due passi da me, a mio padre addirittura, di cui, intenerito, stringevo il braccio di legno che era al posto del suo braccio vero che, falciato da una mitragliatrice austroungarica quando aveva solo 19 anni, su una piana dalle parti di Motta di Livenza, venne poi sepolto al fronte. “Con quell’augurio felicemente urlato nella notte – mi spiegava mio padre – volevo dire ai cosiddetti nemici della mia stessa età che mi stavano di fronte, intirizziti come me, impauriti come me, spersi come me, volevo dire che siamo tutti ragazzi, che tutti vorremmo essere a casa in questa notte santa, che tutti vorremmo abbracciarci gettando gli elmetti in aria, nel dirci, festosi, che la guerra è finita, che l’incubo è passato”.
Era per far cessare le guerre e gli odi, anche quelli personali, che un bambino era nato a Betlemme quasi duemila anni prima. Un bambino che, non per i soli cristiani, ma per tutti, ha sconvolto il mondo, lo ha modificato alla radice, profondamente ed in meglio. Cristo infatti (e lo dico da cronista, non da credente) è colui che ha detto che tutti gli uomini sono uguali; che la schiavitù è inconcepibile; che la donna ha la stessa dignità dell’uomo perché è una persona e, come tutte le persone, è unica e irripetibile; che ha introdotto la laicità della Stato (“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”). Cristo, anche se viene considerato con gli occhi laici e freddi dell’agnostico (e non con quelli a lui favorevoli ed affezionati del credente) è un autentico ed immenso spartiacque nel corso della storia.
L’uguaglianza delle persone, la libertà della gente, la separazione fra lo Stato e la Chiesa che adesso (ma non certo, purtroppo, in tutto il mondo) sembrano principi ovvii, 2012 anni fa erano delle autentiche eresie. Leggere la storia del mondo come divisa dallo spartiacque del “prima e dopo Cristo”, non è quindi un omaggio fideistico a Cristo, ma una semplice constatazione storica. L’omaggio alla verità, documentata, dei fatti. Ma quando, alla metà degli anni Cinquanta, io e mia sorella Emilietta, di due anni più vecchia di me, e poco più che decenni entrambi, facevamo il presepio, queste conoscenze non le avevamo. Ci piaceva solo (e molto) la storia del Gesù Bambino deposto in una mangiatoia mentre i Re Magi erano in viaggio per omaggiarlo con i loro doni, seguendo la stella cometa e i pastori, più solleciti, anche perché più vicini, portando gli agnelli in spalla, si avvicinavano alla grotta abbacinati di stupore. La regola, dettata allora da motivi economici, ma in seguito ugualmente condivisa anche dai miei figli e poi, adesso, dai miei nipoti, era che il presepio non lo si comperava ma lo si costruiva. Le statuette approssimative venivano fatte di fango, in campagna, fin dall’estate precedente e venivano poi poste a cuocere alla luce del sole di luglio, quello che ti stordiva, tanto era caldo.
Per farle stare in piedi, cercavano, con vari trucchi stilistici, diciamo così, di non isolare mai le braccia dal corpo. E anche le gambe erano accostate l’una all’altra per renderle più solide. Le statuette poi le coloravamo approssimativamente con degli acquarelli dozzinali che la zia Paola, maestra elementare di lungo corso e signorina per determinazione nonché nostra complice, acquistava all’Upim di via XX Settembre a Piacenza. La grotta era costruita da pezzi di legno da stufa appoggiati l’uno all’altro. Poi c’erano i laghetti realizzati con degli specchietti rubati alla mamma che faceva finta di non esserne accorta. L’ingrediente più utile però era il muschio perché, come il formaggio grana sugli spaghetti, lo si distribuiva su tutto. Su questo punto, tra me, più sbrigativo anche allora, e mia sorella, più meticolosa e doverista, c’era profondo dissenso: io andavo a cercare il muschio che cresceva sulla riva dei canali di irrigazione. Era un muschio alto, quasi una pelliccia verde. Con poca fatica, se ne portava a casa molto. Però era anche un muschio grossolano e soprattutto umido e con uno zoccolo di terra fradicia. Durava poco e impiastricciava molto.
Mia sorella Emilietta invece, volendo fare le cose per bene e che duravano, portava a casa solo il muschio che cresceva sulla base dei tronchi dei gelsi, che allora erano numerossimi. Su tali tronchi però il muschio era poco, basso, difficile da strappare. Renitente, insomma. Una volta portato a casa però, non trascinava con sé la terra bagnata, si adattava a ricoperture di qualità e di dettaglio e poi, essendo secco, si poteva utilizzare anche l’anno successivo. Tuttavia anche se non ho mai saputo perché, per quanto fosse stato accantonato accuratamente, l’anno successivo, il muschio, non lo si trovava mai. Il presepio era una preoccupazione entusiasmante che durava diversi mesi. Ogni anno veniva arricchito di qualche soluzione nuova . E come per i ciclisti della domenica che, stupiti e un po’ invidiosi, vanno a vedere il Giro d’Italia sul Pordoi o sul Falzarego, anche noi, piccoli presepisti di campagna, avevamo, ogni anno, una meta di eccellenza di cui non ci saziavamo mai.
Una sorta di Fiera campionaria dei presepi. La Manhattan del muschio e delle luci. Un bagno nella meraviglia e nello stupore. Era il presepio mobile della chiesa piacentina di San Carlo in via Torta, una via che mi metteva appetito. Anche per questo avvenimento ci preparavamo per tempo. Non domandavamo mai quando ci saremmo andati. Ma sapevamo che ci saremmo andati. Il giorno prima, probabilmente senza nemmeno sapere che noi tutti eravamo in attesa, nostra madre ci diceva: “Domani, bambini, andiamo a vedere il presepio a Piacenza”. Noi cinque, allora, partivamo con la mamma prendendo la corriera della Sea. E già questo, era un avvenimento, da gustare in tutti i suoi dettagli. Arrivavamo a Piacenza in piazza Cittadella e, a piedi, andavamo in San Carlo, dove si doveva fare la fila, tante erano le persone che volevano vedere il presepio che era immenso. O così, almeno, mi sembrava. C’era un sacco di cose da vedere ma ci si doveva affrettare perché la gente spingeva.
Le statue, nel buio di una notte fonda, avanzavano impettite e tremolanti (perché le rotaie sulle quali esse scivolavano non erano il massimo). Nel giro di pochi minuti si passava dalla notte fitta, nella quale si vedevano solo poche luci, all’alba rosata, al mezzogiorno laborioso e abbacinante, al tramonto. Nella notte, in fondo, si vedeva una sorta di lampo rossastro e poi, come un furetto, compariva un diavolo che doveva essere terribile (infatti le bambine facevano oh, mettendosi la mano davanti alla bocca) ma che a me (e questa impressione non la comunicai a nessuno, ovviamente) pareva solo birichino. Assomigliava infatti al burattino Sandrone, quello che aveva il bastone da usare sulla testa dei suoi avversari che, in pratica, era incorporato nelle sue braccia intrecciate sul petto per cui, per menare le legnate, doveva girare su se stesso, a destra e a sinistra. E, splash, chi c’è, cè. Senza sconti per nessuno. Il diavolo mi piaceva anche perché, essendo un guizzo, non riuscivo mai a vederlo bene: compariva, e subito si eclissava. E, per vederlo di nuovo e possibilmente meglio, bisognava lasciar passare un altro ciclo di albe e crepuscoli mentre il pubblico premeva e mia madre si spazientiva.