È inevitabile: i tagli generano molta sofferenza sociale. Non è chiaro, tuttavia, se questa politica di austerità è assolutamente necessaria o se si tratta del frutto di un’ideologia. Cosa accadrebbe se la Merkel non fosse così ossessionata dalla disciplina di bilancio? Esiste un’alternativa alle politiche messe in atto dai governi di centrodestra in Spagna e in Portogallo? E a quelle che hanno portato Monti al Governo in Italia l’anno scorso? Fare chiarezza su questo tema aiuta a ridurre la sofferenza, non perché le circostanze diventino meno dure, ma perché almeno si può avere una coscienza chiara della direzione verso cui si sta andando.
In Spagna le cose sono abbastanza chiare. Zapatero già dal maggio del 2010, un anno e mezzo prima di andarsene, ha dovuto effettuare pesanti tagli. Nel 2011, per esempio, ha tagliato 2,7 miliardi dal bilancio della sanità. Questa stessa voce ha subito nel 2012, dopo l’arrivo di Rajoy, un’altra riduzione di 4,6 miliardi. Dopodiché è stato imposto il copagamento dei farmaci, non sono state rivalutate tutte le pensioni, sono state tolte le tredicesime ai dipendenti pubblici, sono stati ridotti gli organici dei professori, sono sparite le borse di studio, sono aumentate le tasse per gli studenti e il sistema di sostegno alle persone non autosufficienti, ribattezzato quarto welfare, è rimasto praticamente senza risorse. Tutto questo mentre sono aumentate Iva e Irpef.
In qualsiasi momento potrebbe arrivare un nuovo taglio e potrebbero essere modificati i criteri per accedere alla pensione. L’obiettivo è ridurre il deficit pubblico al 6,3% del Pil nel 2012 e gli squilibri nei conti delle Comunità autonome lo renderanno impossibile da raggiungere. Bruxelles lo sa e l’esecutivo di Mariano Rajoy, sebbene sia cosciente di non poter arrivare all’obiettivo stabilito, vuol comunque dimostrare di essere politicamente determinato.
Ci sono alternative? È una scusa del centrodestra dire che il welfare è in bancarotta e non c’è altra soluzione che ricorrere ai tagli? Qualcuno dice che è così. Certamente la politica della Merkel, che è quella che comanda, potrebbe essere stata diversa. Se avesse avuto più leadership politica avrebbe convinto i tedeschi che le loro pensioni non sono tutto e avrebbe tollerato una politica monetaria più espansiva, come quella fatta negli Stati Uniti. Se fosse stato così, forse a quest’ora non staremmo parlando di recessione a W.
D’altra parte con i tagli si può essere anche selettivi. La politica fiscale spagnola non è stata blanda. L’aumento dell’Irpef è una iattura per le famiglie che si stanno dando tanto da fare perché la crisi non si trasformi in un genocidio economico. Lo stesso accade con l’Iva. Ma è ideologico pensare che il welfare così come lo abbiamo conosciuto finora possa continuare a esistere. La globalizzazione ci ha portato a competere con paesi che producono a prezzi inferiori e la popolazione europea sta invecchiando: abbiamo ogni volta meno contribuenti e più servizi da erogare. Le nostre economie hanno ancora troppe inefficienze e un basso tasso di produttività. Nel caso della Spagna si aggiunge inoltre un fattore decisivo: grazie a tasse basse è stato possibile ottenere entrate importanti durante la bolla immobiliare; ora non ci saranno più.
Forse la prima cosa da fare è ammettere questi fatti. Dopo si può anche pensare a un “dibattito” nazionale o europeo per rispondere sinceramente a un’unica domanda: che alternativa abbiamo? Perché questo dialogo sia possibile è necessario superare la mentalità statalista che ci paralizza. La questione, come sempre, è culturale. In Europa, in particolare in Spagna – a causa di una mentalità condivisa da destra e sinistra – abbiamo pensato che lo Stato, in quanto soggetto slegato dalla responsabilità sociale e personale, avesse l’obbligo e la capacità di garantirci i diritti economici sanciti dalle costituzioni del XX secolo.
Se questa crisi ha messo in luce qualcosa è il fatto che occorre una transizione da un welfare state chiaramente insostenibile a una welfare society che, con l’aiuto dell’Amministrazione, possa garantire alcuni servizi sanitari e sociali che ancora abbiamo. E questo non significa privatizzare. Si tratta, in primo luogo, di costruire una cultura della responsabilità. Dell’Europa che i nostri padri hanno creato rimarrà molto poco se l’iniziativa sociale non diverrà protagonista.