In questi giorni che si festeggia il Natale, concentriamoci su Betlemme. La città in cui nacque Gesù torna infatti a far notizia. Netanyahu, primo ministro israeliano, è in campagna elettorale per il voto del prossimo 22 gennaio e sta parlando di costruire un insediamento nell’area E1: un progetto che estenderebbe, da Gerusalemme Est, la presenza israeliana in Cisgiordania e lascerebbe Betlemme ancor più isolata.
La politica degli ultimi anni del governo israeliano, la costruzione del muro e la pressione islamista hanno fatto sì che il numero dei cristiani sia sceso fino a ridursi a 15.000. Andare a lavorare da Betlemme a Gerusalemme è diventato un supplizio, specialmente nel mese di settembre, quando ci sono le feste ebraiche e gli accessi restano chiusi per 15 giorni consecutivi. L’emigrazione dei cristiani è stata massiccia e non è un’esagerazione pensare che in breve tempo non resteranno più battezzati nel luogo in cui Cristo è nato.
Ma perché concentrarsi su questa piccola città quando i cristiani nel mondo sono 1,7 miliardi e hanno raggiunto quasi tutti gli angoli del Pianeta? La questione della Terra Santa non è qualcosa di sentimentale? Quando Origene arrivò a Betlemme nel III secolo chiese ai cristiani del luogo dove fosse nato Gesù. Uno dei membri della comunità gli indicò il posto. Nonostante la distruzione del tempio e il massiccio esilio, era rimasto un ridotto gruppo di fedeli che sapeva indicare il luogo dove nacque il Salvatore. La tradizione dell’avvenimento era rimasta viva passando da una persona all’altra, probabilmente dai padri ai figli. Questa continuità della tradizione nei Luoghi Santi è il miglior vaccino contro un cristianesimo astratto, ridotto spesso a una dottrina o un insieme di idee morali sulla famiglia, il sesso o la vita.
Questi e gli altri valori che derivano dalla fede sono essenziali, ma non sono la fede. Il cristianesimo è un fatto che inizia in un luogo e in un tempo, in Giudea, nel quindicesimo anno del regno di Tiberio Cesare. Cominciò con un bambino che prima ha attirato i pastori e poi i re magi da Oriente. La storia si ripeté quando il bambino, una volta cresciuto, si recò al tempio e iniziò a predicare e guarire. C’era in lui ciò che Guardini ha definito “un continuo e silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità […] che finisce per rivelarsi semplicemente come un miracolo”, come una manifestazione della presenza di Dio.
In un modo misterioso, questo tipo di umanità spiegabile solamente con il fatto che Dio si è fatto carne, ha continuato a essere presente lungo gli ultimi venti secoli nella Chiesa. Sempre legata alla concretezza di un luogo e di un tempo, alla testimonianza di persone esistite. Senza la Terra Santa è facile che questa semplice dinamica venga dimenticata e che si possa pensare che la fede sia frutto di progetti e buoni propositi.
Quando scoppiò il “caso Betlemme”, la terra allora conosciuta era dominata dalla “Pace di Augusto”. La Pax Romana dava una certa omogeneità. E la risposta che arrivò al desiderio di salvezza si diffuse molto rapidamente. Oggi il mondo è multipolare rispetto all’epoca di Augusto. Tutto il Medio Oriente è dominato da una lotta tra sunniti e sciiti che esprime l’Islam solamente attraverso categorie di potere. Nell’emergente Cina e nel mondo asiatico, la cultura orientale, in cui il più delle volte la singolarità della persona svanisce, un capitalismo senz’anima appare spesso come il paradiso. Negli Stati Uniti, l’insistenza sul successo personale e l’enfasi sulla capacità della volontà minacciano di far dimenticare che la cosa più preziosa della vita è un dono. E in un’Europa stanca e ossessionata dalla dissoluzione dello Stato sociale non è sorprendente che manchi l’iniziativa per mettere in moto quella libertà senza la quale ogni risposta appare come estranea. Ma la globalizzazione ha messo in evidenza che oggi, come ai tempi di Augusto, il desiderio del cuore umano continua a essere lo stesso: che la Verità sia incontrabile. A questa, forse confusa, aspirazione il “caso Betlemme” dà risposta.
Come ha recentemente ricordato Benedetto XVI: «Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo! Egli è così vicino che è uno di noi. Conosce l’essere umano, il “sapore” dell’essere umano, lo conosce dal di dentro, lo ha provato con le sue gioie e le sue sofferenze».