A una settimana dalla visita ad limina del premier Mario Monti a Washington e a New York, è forse opportuna qualche considerazione a freddo. Analizzandola nel profondo ne emergono varie valenze, alcune molto tradizionali ma altre molto nuove.
Retaggio dell’esito della seconda guerra mondiale e della Guerra fredda è il rituale viaggio in America culminante nel rituale bacio della pantofola del presidente Usa del momento: tradizionalmente la prima e talvolta unica missione fuori dell’Europa di ogni nuovo capo di governo italiano. Inaugurata dalla storica visita di De Gasperi negli Usa del gennaio 1947, a conferma della sua natura di omaggio quasi-feudale, questa tradizione è tipicamente asimmetrica. Pochissime volte infatti i presidenti americani l’hanno ricambiata, e comunque mai l’Italia è stata tra le mete del loro primo viaggio in Europa.
Nuova, proprio perché strettamente legata al profilo biografico di Monti, è invece la sua natura di rimpatriata a New York: per Mario Monti la tappa nella capitale finanziaria degli Usa è stata un festoso ritorno a casa tra i suoi antichi colleghi della Goldman Sachs e delle altre grandi banche d’affari americane, tra gli amici consoci della Trilateral Commission e di altri club altrettanto esclusivi, fino alla visita (un gesto di straordinaria umiltà per un capo di governo in carica) al New York Times, fratello maggiore del Corriere della Sera e suo costante punto di riferimento sin da quando nel primissimo dopoguerra, su incarico del governo militare alleato, tramite Ugo Stille governò il rapido e tranquillo traghettamento dell’autorevole quotidiano di via Solferino da pilastro del regime fascista a pilastro dell’alleanza tra Italia e Usa.
Come qualcuno ha già acutamente osservato, Mario Monti è il candidato del Corriere della Sera molto più che de la Repubblica. La sua visita al New York Times lo conferma. Senza pregiudizio per la sua dedizione alla causa del nostro Paese, che non c’è motivo di mettere in dubbio, umanamente e culturalmente Mario Monti è uno di loro più che uno di noi. Se ci fosse stato bisogno di averne la riprova, la sua giornata a New York ce l’ha data ad abundantiam. Può darsi tuttavia che ciò sia davvero utile al ripristino della buona fama nel mondo dell’economia italiana; e se sarà proprio così non potremo che esserne ben contenti.
Nuovissima, e potenzialmente foriera di sviluppi molto interessanti, è infine un’altra valenza di questa visita, che Francesco Forte bene ha sottolineato in una sua intervista recente, commentando l’incontro di Monti con Obama. Dopo il pasticcio combinato dalla Francia nel caso della Libia sembra che il governo americano si stia accorgendo delle potenzialità del ruolo che la storia e la geografia assegnano all’Italia nel Mediterraneo (anche al di là, aggiungiamo noi, della sensibilità o meno dei vari governi succedutisi a Roma negli ultimi decenni). E’ ormai evidente che, in questa fase ormai argentea della loro egemonia planetaria, gli Stati Uniti stanno visibilmente riducendo la loro presenza nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente; e sono perciò alla ricerca di un alleato nel Mediterraneo più forte e più attivo di quelli che potevano bastare loro un tempo. In tale prospettiva l’Italia diventa per Washington molto più interessante di quanto fosse in precedenza.
E’ però prevedibile che cerchino semplicemente una “spalla” per la loro politica, che per natura sua tende ad essere atlantica anche nel Mediterraneo: una contraddizione che da sempre offre mesti risultati. Sta al nostro Paese invece porsi al riguardo come alleato nient’affatto minore e nient’affatto passivo. E’ già sul tappeto un urgente banco di prova di tale rinnovata e riequilibrata alleanza: la crisi siriana. Come scrivevamo, l’Italia ha tutte le carte in regola per affrontarla in modo positivo intervenendo per favorire una transizione non catastrofica da Assad al dopo-Assad. Per potervisi impegnare il nostro governo deve però essere libero di guidare il ballo come non potrebbe se restasse nel ruolo di “spalla” di quello di Washington. Ciò detto resta tuttavia ancora una grossa questione aperta.
Monti ha affidato alcuni ministeri per così dire in autogestione alla loro stessa dirigenza pensando evidentemente di non doversi occupare di ciò cui sono preposti: uno di questi è il ministero degli Esteri, a capo del quale è stato messo per l’appunto un ambasciatore (così come un prefetto è ministro dell’Interno e un alto ufficiale è ministro della Difesa). Nella prospettiva di un rinnovato ruolo del nostro Paese nel Mediterraneo ciò diviene tuttavia obiettivamente insostenibile. Al di là della sua personale competenza e capacità, un ministro degli Esteri-ambasciatore, la cui trasformazione in vertice politico del ministero ha tra l’altro ovviamente sconquassato i delicati equilibri interni del mondo diplomatico italiano, non è di aiuto a uno sviluppo del genere.