Mario Draghi, ancora fresco presidente della Banca centrale europea, dice al “Giornale di Wall Street”, che il «modello sociale europeo è morto». Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, “ma anche” (anzitutto) Ceo di Chrysler, manda a dire da Detroit che «di troppa storia si può morire». Entrambi pongono chiaramente una questione culturale che travalica la crisi economico-finanziaria e anche quella specie di gioco di società mediatico-globale che ha ormai sostituito la Grecia con l’Italia come paese-feticcio (la crisi bancaria sistemica e la recessione planetaria non sono da attribuire al crac di Lehman Brothers e alle sue ricadute, ma al fatto che gli italiani non si possono licenziare e vogliono andare in pensione troppo presto).
Draghi e Marchionne – tra l’altro ospiti assidui degli ultimi Meeting di Rimini – mettono comunque apertamente in mora una “civiltà europea” che ha una solida infrastruttura in una finanza bancocentrica con forti connotazioni sussidiarie. Le Fondazioni di origine bancaria – eredi in Italia delle Casse di risparmio – e il credito cooperativo (soprattutto quello più grande, proprio delle Popolari) sono le espressioni concrete e vitali di quest’esperienza storica.
Da almeno vent’anni – da quando la finanza di mercato ha prodotto successi e disastri le sue ambizioni egemoni – Fondazioni e Popolari sono obiettivo di attacchi sistematici: in quanto “diverse” rispetto al canone unico del capitalismo finanziario globale, di volta in volta sono oggetto di assalti essenzialmente regolamentari. Alle Fondazioni si cerca in tutti i modi di inibire il ruolo di azioniste stabili dei “campioni nazionali” (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Montepaschi); delle seconde si tenta continuamente di mettere in discussione la compatibilità del loro ordinamento cooperativo con la quotazione in Borsa delle popolari maggiori (Ubi, Banco Popolare, Bpm, ecc.).
Non ha quindi stupito che negli ultimi giorni – nel maxi-contenitore del decreto liberalizzazioni – abbiano rifatto capolino i due vecchi sport nazionali: è sempre un buon momento per tirare calci negli stinchi a Fondazioni e Popolari. Se poi il governo è “tecnico” (cioè “antipolitico”) la fase è imperdibile per recitare litanie abituali: le Fondazioni sono “politica” (notoriamente “una cosa sporca”) e le Popolari invece pure. Entrambe impediscono al “mercato” di fare un boccone di tutte le banche sopraddette: come del resto sarebbe giusto, perché (per definizione) le banche italiane sono inguardabili (che poi non siano fallite durante l’ultima crisi è un altro discorso).
È stato così che è spuntato un emendamento di due “peones” del Pdl che voleva tentare un blitz sulle Popolari: via il voto “capitario”. In parallelo, altre manine targate Pdl hanno provato a vietare alle Fondazioni di avere partecipazioni bancarie diverse da quella “principale”, nella cosiddetta “banca conferitaria”. Entrambe le sortite sono presto finite nel nulla. Ritirato l’emendamento sulle Popolari, a favore del progetto di riforma già in cantiere e concordato con la categoria (aumento delle deleghe in assemblea e possibile incremento del tetto di possesso azionario).
Più curioso l’iter dell’emendamento sulle Fondazioni, all’interno di un provvedimento che è comunque sotto la responsabilità di Corrado Passera, ex amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, controllata da una decina di Fondazioni. Il parere del Tesoro (retto da interim dal premier Monti e operativamente dall’ex direttore generale Vittorio Grilli, ora viceministro) è stato “negativo”.
In Parlamento è rimasta a mezz’aria l’ipotesi di tagliare egualmente qualche unghia alle Fondazioni nella capacità di rappresentanza multipla in consigli d’amministrazione di più banche. Ma da due giorni s’è persa traccia del tutto, anche se restano vivi gli interrogativi sulle origini del revival anti-Fondazioni. L’obiettivo è forse Fabio Roversi Monaco, presidente dell’Ente Cassa Bologna? Lo scorso ottobre il giurista emiliano è entrato niente meno che nel consiglio di Mediobanca, in rappresentanza degli investitori istituzionali (tra cui le Fondazioni CariVerona, Crt e Cassa Bologna). Uno schiaffo bruciante nientemeno che a Francesco Giavazzi, commentatore ultraliberista de Il Corriere della Sera, nonché genero dello scomparso presidente di Mediobanca, Francesco Cingano: era lui (già consigliere del monopolista Autogrill) l’auto-candidato dei fondi comuni.
Un’altra pista porta a Montepaschi, la cui Fondazione ha messo in vendita il 15%: si vuole tenere lontane le altre Fondazioni (anche solo con la minaccia di non poter entrare in consiglio)? Si vuol lasciare ai fondi Equinox e Clessidra (oppure a investitori esteri) il tavolo sgombro per negoziare al meglio con Siena, già stretta nell’angolo dai conti di Fondazione e banca?
Sul crinale Fondazioni-Popolari, il Pdl potrebbe d’altronde riprovarci su uno scacchiere preciso: Verona. L’anno scorso la Fondazione (di cui il sindaco leghista Flavio Tosi è king-maker) si era candidata a rilevare il 5% del Banco Popolare, bisognoso di nuovi capitali? Un “incesto bancario” indigeribile per qualsiasi normativa? Forse, però smettiamola con le “battaglie di civiltà” condotte da “professorini” (copyright: Corrado Passera).