L’altra sera la neve scendeva fitta, veloce eppure leggera; si capiva subito che sarebbe rimasta, che avrebbe coperto tutto. Il giorno dopo il paesaggio era proprio quello che mi aspettavo: una bianca ondulazione uniforme sopra tutte le forme e le linee che normalmente appaiono allo sguardo: il tetto della casa di fronte, i rami appena potati della magnolia, l’auto parcheggiata in cortile. Poi i fiocchi hanno cominciato a non scendere più fitti e diretti come prima; sembravano non aver voglia di posarsi, se ne andavano un po’ in giro portati dal vento, come se ballassero; la nevicata stava per finire. Le previsioni hanno detto che ci sarebbero stati giorni di gelo; la neve caduta si sarebbe raggrumata in fragili strati croccanti o in durissime lastre di ghiaccio. Per un po’ dovremo fare i conti con i postumi della nevicata.

Sono conti istruttivi, anche se in parte fastidiosi. Come è fastidioso guidare su una strada scivolosa, stare attenti a fare curve che di solito non ci si pensa, perché le ruote potrebbero slittare e fare brutti scherzi. Lo stesso vale quando si cammina su marciapiedi da cui non sia ancora stata spazzata la coltre nevosa. Bisogna rallentare il passo, perché improvvisamente sotto le suole, per quanto uno si sia premunito di mettere scarpe adatte, il terreno non è sicuro come al solito; non ci vuole niente a scivolare sulla neve già calpestata da altri e resa una melma sdrucciolevole o, peggio, una scivolosa lastra ghiacciata.

È istruttivo essere costretti a questo strano modo di camminare. Si scopre che non è per niente scontato poter poggiare gagliardamente i piedi su un terreno solido; nel cammino ci sono pericoli nascosti, sedimenti gelati, passaggi che sembrano soffici e facilmente superabili e invece ci si sprofonda inondando la scarpa di neve che poi si scioglierà in acqua gelida. Insomma la neve suggerisce di non essere ovvi e meccanici nei passi che si fanno; che si tratti di andare da casa alla fermata dell’autobus o di prendere una qualsiasi decisione per la vita.

La neve, si sa, è soffice. Ma è anche pesante. Se non si sta attenti, lo strato che si posa sui rami dell’albero potrebbe raggiungere una consistenza tale da spezzarne i rami. Qualche anno fa, non avendoci posto adeguata attenzione, non mi sono accorto che sul pergolato di gelsomini si era accumulata così tanta polvere bianca che alla fine è crollato tutto. Un fiocco sembra niente, ma se sono infinitamente ripetuti, si accumulano fino a provocare disastri. Esattamente come certi pensieri tristi che poi fanno sprofondare in un dubbio generale, come certi pareri non verificati che poi producono disistima e spaccano i rami delle amicizie, come certe abitudini mai contrastate che poi producono un vizio da cui sarà difficile liberarsi.

Ma la neve è soprattutto l’introduzione nel solito campo visivo di una bianchezza strana, di una luminosità cui non si era abituati. In una città tendenzialmente grigia come Milano questo fenomeno è ancora più evidente. Girandola in questi giorni o semplicemente aprendo le persiane al mattino si vede una luce nuova, un incredibile biancore che risalta sopra ogni altro colore e a tutti dà nuova intensità. Certo, quel bianco sarà sporcato dallo smog, dal calpestio, dalla terra. Ma per un po’ di tempo ogni bruttura è coperta dalla sua purezza.

In questi momenti si capisce quanto della neve diceva il mio amico pittore Bill Congdon: «È il cielo che perdona alla terra».