I soldi non ci sono più: la progressiva riduzione della spesa pubblica e dei trasferimenti dello Stato fa sì che i Comuni non riescano più a rispondere ai bisogni della gente. D’altra parte, il privato a fine di lucro non interviene, né vuole intervenire, per gestire servizi fondamentali per il cittadino che non permettono di assicurare dividendi per gli azionisti. La conseguenza inevitabile è quella rilevata dai cittadini intervistati nell’indagine che ha dato vita al sesto Rapporto sulla Sussidiarietà dal titolo “Sussidiarietà e… città abitabile”.
Nelle 12 città italiane superiori a 250.000 abitanti indagate, si rileva una sostanziale insoddisfazione rispetto ai servizi erogati dall’amministrazione comunale. In particolare: politiche per la casa – disponibilità di abitazioni a prezzi accessibili e di buona qualità – (l’insoddisfazione è al 64%); trasporti e mobilità (settore bocciato dal 56% dei cittadini); per il 49% è scarsa o insufficiente la gestione del verde pubblico; la gestione dei rifiuti soddisfa il 58% degli intervistati; le proposte per il tempo libero proposte dal proprio comune sono soddisfacenti per il 54% del campione.
Si vive sempre peggio e se non si è a livello della disumanizzazione di grandi megalopoli europee, nordamericane, e soprattutto asiatiche, si rischia il deterioramento della qualità della vita quotidiana italiana che, a onta di tanta retorica negativa, è di fatto invidiata dal resto del mondo. Città di medie dimensioni, governate da giunte di diverso colore, quali Firenze, Bologna, Verona sembrano infatti scontentare di meno i cittadini, forse perché è un po’ meno accentuata la spersonalizzazione e la burocratizzazione dei rapporti con le persone.
Non c’è dunque rimedio a questo progressivo declino? Il Rapporto mostra una possibile via d’uscita che chiede però, per essere perseguita, una rivoluzione culturale. La seconda parte del Rapporto racconta l’esperienza di alcune attività nate dall’iniziativa di realtà del privato sociale (“sussidiarie”): una zona degradata di Roma alla Garbatella, trasformata da persone raccolte in comitati in splendidi orti autogestiti; un gruppo di ragazzi – i Friarielli – che realizza interventi di recupero di piazze e giardini con piantumazione di nuovi alberi nella città di Napoli; un nucleo di volontari coinvolti in un’associazione, Amicobus, che accompagna fisicamente anziani e malati di Torino e dei Comuni limitrofi fino allo sportello o all’ambulatorio; il Centro Pompeo Leoni a Milano attraverso cui un’associazione studentesca, la Ringhiera, dà vita a una struttura abitativa, di buona qualità residenziale, con alloggi in affitto a canone contenuto rivolti, oltre che a studenti, anche a giovani famiglie, anziani, separati; a Catania, il Collegio Camplus D’Aragona che non si limita a essere un ottimo pensionato universitario, ma propone attività di accompagnamento educativo alla formazione attraverso il coinvolgimento di tutor e una fitta attività culturale aperta alla comunità esterna; i doposcuola Portofranco di Milano e Parsifal dello Zen di Palermo che attraverso un’intensa attività gratuita di insegnanti assicura un doposcuola di alto livello a ragazzi poco abbienti italiani e extra comunitari; le Polisportive Pontevecchio ed Europa, rispettivamente di Bologna e Napoli che permettono l’attività sportiva a molti ragazzi che altrimenti ne sarebbero esclusi anche gestendo campi sportivi…
Questi e molti altri gli interventi sussidiari descritti dal Rapporto, esempi di una realtà molto più vasta di interventi realizzati “dal basso”, da realtà sociali non profit per rispondere a bisogni a cui i Comuni non possono o non riescono più a soddisfare. Non per niente i cittadini che bocciano i Comuni promuovono queste iniziative quando siano già in atto, o ne auspicano il moltiplicarsi quando siano ancora sporadiche come in alcune città del Sud. Tre quarti dei cittadini italiani sono favorevoli all’intervento di iniziative sussidiarie in settori quali casa, ambiente e tempo libero; due terzi lo sono in quello della mobilità.
Se si vuole evitare una “americanizzazione” delle città italiane, con poveri abbandonati a se stessi e ricchi che possono mettere a disposizione risorse per rispondere alle loro necessità, bisogna auspicare che queste iniziative si diffondano a macchia d’olio. Perché ciò avvenga occorre che rinasca il desiderio di bene che le origina e questo desiderio possa essere educato. Nello stesso tempo, occorre invertire la tendenza a un nuovo statalismo degli enti locali, di destra e di sinistra, che non capiscono come un euro speso per supportare una realtà sociale siffatta si moltiplica come il talento in mano al servo operoso della parabola evangelica.
C’è speranza che le forze politiche, certi giornalisti e certi studiosi scoprano che se no il re (e il popolo) rimane nudo?