Due settimane fa Mario Draghi ha demolito con una lucida analisi ciò che resta del sistema di welfare europeo evidenziandone limiti e contraddizioni. Quest’oggi voglio approfondire con alcuni dati ed esempi le motivazioni per le quali serve un nuovo modello di welfare in Europa.

Se consideriamo in termini economici il valore del welfare europeo, esso costituisce il 58% del welfare che viene erogato in tutto il mondo. Se pensiamo che la popolazione europea rappresenta l’8% della popolazione mondiale comprendiamo bene come non possiamo più permetterci questo livello di welfare. Per di più, noi cittadini dell’Unione europea, saremo fra 30 anni il 4%, rispetto alla popolazione mondiale, e ancor meno potremo permettercelo domani. E ancora, noi cittadini dell’Unione europea siamo 500 milioni di persone, tra questi 75 milioni hanno meno di 25 anni. in Egitto, che è un Paese dell’area sud del mediterraneo, su 80 milioni di abitanti 60 milioni hanno meno di 25 anni.

Tutti questi fattori ci fanno capire che c’è una sproporzione tra l’organizzazione e l’ideologia che sorregge il nostro welfare. Però la sfida che viene dalla realtà è ancora più grave: abbiamo cercato di battere questa situazione sul piano europeo con uno slogan, “meno Stato più mercato”, che alla fine della crisi che ci portiamo dietro da qualche anno, sembra invece far gridare alla nostra opinione pubblica “più Stato, più mano pubblica, più intervento per dare un lavoro ai giovani”.

Allora come possiamo contribuire a risolvere la situazione? A me non interessa fare un discorso ideologico, ma solo fornire alcuni dati: c’è un settore che ha avuto un’ottima performance in questi anni, che è cresciuto, che oggi rappresenta per esempio il 6% dei lavoratori dipendenti europei, 12 milioni di persone che sono legate al segmento dell’economia sociale. È un settore in cui i giovani trovano lavoro con particolare facilità, perché far parte di un esperienza cooperativa, o di una fondazione, o di un’organizzazione non profit, corrisponde fino in fondo le motivazioni e gli interessi di molti dei nostri ragazzi. Senza contare che le professionalità legate all’economia sociale sono profondamente maturate e rappresentano un’opportunità anche in campi particolarmente complessi. E soprattutto è un segmento che sta dando risposte importanti nel settore dei servizi di pubblica utilità alla persona.

Mi spiego anche qui con un esempio. I costi legati al comparto della sanità aumentano a dismisura perché cresce la popolazione anziana in Europa: molti studi convergono nel dire che i sistemi sanitari nazionali europei spendono negli ultimi mesi di vita di una persona ultrasettantacinquenne l’equivalente di quanto corrisposto durante tutto l’arco della vita. Dovremmo guardare tutti a esempi positivi come la Norvegia, dove il 20% della popolazione sopra i 65 anni invece di essere ricoverato in ospedale, grazie a imprese del privato sociale, riceve assistenza domiciliare integrata. Se in tutta l’Unione europea ci si comportasse allo stesso modo, noi abbatteremmo il costo del welfare e costruiremmo un modello in cui, per di più, i benefici dati dal favorire l’accoglienza dell’anziano in famiglia corrisponderebbero alla nostra concezione della unicità e irriducibilità della persona.

In Italia non il 20%, ma appena il 2% della popolazione anziana riceve assistenza domiciliare integrata. Tutti gli altri vanno in ospedale, con un costo medio giornaliero per un lungo degente anziano che non ha bisogno di un ricovero ospedaliero elevatissimo. Economia sociale vuol dire quindi una logica di sussidiarietà. Non a caso su quattro nuove imprese che fioriscono una appartiene al segmento che denominiamo economia sociale.

Per questo la nostra lettura della formula “meno Stato, più mercato” deve ricalcare quanto già realizzato con successo da regioni, come ad esempio la Lombardia, secondo la logica: “Più società fa bene allo Stato”. Più società fa bene alle istituzioni. Più società fa bene al nostro modello popolare sussidiario dell’Unione europea.