La notizia che tanto si aspettava è finalmente arrivata: la furiosa battaglia attorno all’articolo 18 non riguarda i dipendenti dello Stato. E’ una pessima notizia. Perché se c’è un mondo in Italia dove c’è bisogno di una mossa, di una vibrazione, è proprio quello. Gli altri lavoratori, quelli del privato, vivono già in una terra difficile e piena di scosse: le aziende chiudono, gli stipendi diminuiscono (sono sempre impressionanti i dati sui salari reali), le amministrazioni pubbliche non pagano i creditori, la concorrenza interna e soprattutto esterna è durissima. Difficile dire oggi se la riforma del lavoro che scalda tanto gli animi porterà benefici seri o meno. In proposito le scuole di pensiero degli esperti sono innumerevoli e contrapposte e le opinioni dei politici confondono le idee con argomentazioni soprattutto ideologiche. Ma comunque l’esclusione del comparto pubblico ne attenua fortemente le ipotetiche virtù. Subito i sindacati hanno espresso soddisfazione: ci mancava solo ingaggiare battaglie nella scuola, nei ministeri, nel grande moloch dello Stato erogatore di impiego, e di tutti i suoi addentellati trasversali e territoriali. “Non vorremmo tornare a difendere la libertà di insegnamento, perché potrebbero esserci licenziamenti di professori non graditi al potere” ha commentato Susanna Camusso. Bum! Gli altri leader si sono limitati al sospiro di sollievo. Ora è evidente anche a un bambino che questa riforma non apre la porta al licenziamento all’americana, ma nell’imperturbabile mondo del pubblico nemmeno l’ottativo (che per i greci indicava una ipotesi lontanissima, quasi irreale) può essere usato. Solo l’indicativo presente e futuro, solo le garanzie dell’immutabilità, solo le certezze dell’intangibilità del posto e della busta paga: nel pubblico nulla può essere toccato. Nessun problema per l’insegnante che imbroglia i suoi studenti con programmi-fuffa; niente incognite per l’ordinario-feudatario di facoltà; impossibile ottenere dai vigili romani di impedire i parcheggi in terza fila; e quegli impiegati dell’ufficio della Motorizzazione civile potranno continuare a trattare male i malcapitati avventori che chiedono certificati o appuntamenti per la patente (fateci un giro: scoprirete tra l’altro che in certi posti l’elettronica, la rete e la buona educazione non sono mai arrivate). Il fatto è che nonostante la crescita smisurata della tassazione sui redditi e sulle cose la spesa pubblica non diminuisce, anzi. E il debito pubblico è aumentato ancora. Come la mettiamo? Forse dopo i giganteschi tagli di trasferimenti agli enti locali operati da Tremonti qualche iniezione di flessibilità e qualche progetto di snellimento dell’impiego pubblico sarebbero importanti. E invece ecco l’ennesima lobby, ben più grande di tutte le altre, che si aggiunge alla lista delle caste intoccabili. Va bene, abbiamo capito. In questo momento non si può combattere contro troppi eserciti ostili. Bisogna lasciare stare i magistrati, e le banche, e le Authority, e gli ordini professionali, e i mega dirigenti, e la piccola e grande burocrazia ministeriale e ora anche il vasto mondo del pubblico lavoro, d’accordo. Ma allora perché non…
Cambiare completamente piano di azione? Non tagliare, che non si può; non minacciare, che non serve; non dichiarare guerre, che poi non si combattono; non (più) rastrellare denaro con il fisco soffocando anche l’ultimo sospiro di consumismo della ex classe media. Bensì incoraggiare, alleviare, semplificare. Saltare la pars destruens e passare a quella costruens. Non ci saranno proteste e veti obliqui e strategie oscure. Fare qualcosa per le non lobby non farà arrabbiare le lobby. Se si incoraggia, si allevia, si semplifica la vita delle non caste della famiglia e dei giovani, chi se ne potrà avere a male?