I rubinetti della spesa pubblica sono destinati a un inevitabile e progressivo razionamento. Inutile illudersi, non si tratta di un fenomeno temporaneo ma di una trasformazione sostanziale che ha ricadute sulla sostenibilità del nostro modello di welfare. Bastano pochi numeri, che riprendo da un’acuta analisi dell’eurodeputato Mario Mauro, per capire di cosa stiamo parlando. Il valore del welfare europeo rappresenta il 58% di quello erogato nel mondo. E questo benché gli europei siano solo l’8% della popolazione mondiale. Fra trent’anni saranno addirittura il 4%. Una sproporzione insostenibile, aggravata dall’invecchiamento demografico: in Europa su 500 milioni di persone solo 75 hanno meno di 25 anni, in Egitto su 80 milioni sono invece ben 60. Di fronte a dati simili il rischio di impoverimento è reale.
Questa situazione potrebbe però trasformarsi anche in una grande occasione per riscoprire una strada per troppo tempo abbandonata: quella della sussidiarietà, della valorizzazione della capacità dei soggetti sociali (associazioni, cooperative, aggregazioni di varia natura) di rispondere ai bisogni della comunità. In questi giorni la Fondazione per la Sussidiarietà ha reso noto il suo rapporto annuale dal titolo Sussidiarietà e… città abitabile. Nelle 12 città italiane con più di 250.000 abitanti indagate, si è rilevata una sostanziale insoddisfazione rispetto ai servizi delle amministrazioni comunali. E negli anni a venire la tendenza è a un peggioramento delle condizioni di vita. Tante esperienze nel campo dei servizi di pubblica utilità, dell’assistenza, dell’educazione, della cooperazione dimostrano però che un’altra via è possibile. Questo richiede un cambio di prospettiva. Va abbandonato un modello culturale e mentale che attribuisce rilevanza pubblica solo a ciò che è emanazione dello Stato in tutte le sue articolazioni, comprese quelle più periferiche. Pure l’ultimo presidente di circoscrizione che ragionasse così sarebbe un campione di statalismo.
Purtroppo siamo cresciuti in un mondo in cui spesso il cosiddetto non profit si è abituato a dipendere dalla mano pubblica, diventando di fatto subalterno a questa. Anche in ambito cattolico, dove a parole si conclama il principio di sussidiarietà, ci si è adeguati al canone vigente. In tempi di vacche grasse si è creato addirittura un circuito perverso per cui associazioni nascevano addirittura in funzione della possibilità di “mungere” contributi pubblici. Un’idea distorta di sussidiarietà, oggi non più compatibile. Il meccanismo va ribaltato: proprio chi ha dimostrato di saper sviluppare un’attività e una progettualità di rilevanza pubblica senza chiedere un euro a Comune, Regione o Stato dovrebbe essere premiato sul piano fiscale e del sostegno. Praticando una vera selettività si riconosce chi svolge un effettivo ruolo sociale. Un esempio da segnalare è il distretto culturale sostenuto in Val Camonica dalla Fondazione Cariplo con una modalità innovativa per rilanciare il volano economico a partire dai beni culturali.
In questi anni in diverse città italiane sono state avviate le scuole di sussidiarietà che hanno visto la partecipazione di parecchie centinaia di persone, soprattutto giovani, con l’intento di approfondire e rendere prassi normale questa nuova visione del rapporto fra persona, comunità e stato. Nulla di ideologico, ma solo la consapevolezza di una strada obbligata per dare un futuro a quanto di meglio c’è nei nostri sistemi di welfare. Tutte le sovrastrutture assistenzialistiche che si reggono sulle casse esangui dei comuni o dello stato sono destinate a sparire. Non va invece perso quel frutto di civiltà, costruito nei secoli, di cui il welfare è espressione, che ha nell’attenzione alla persona il suo cuore. Questo sì sarebbe un grave impoverimento.