Quanto emerso la scorsa settimana sulla stampa statunitense faceva ben capire chi sta recitando il ruolo da protagonista nella lunga campagna elettorale americana. La copertina del Time titolava in spagnolo: “Yo decido” (“Io decido”). Lo spagnolo è parlato da 35 milioni di persone negli Stati Uniti, più del 12% della popolazione. È la lingua del nuovo proletariato, degli immigrati clandestini. È la lingua – lo dice Victor Garcia de la Concha, nuovo direttore dell’Istituto Cervantes – che “viene stigmatizzata”.
Ma secondo la rivista della Time Warner, sono coloro che usano questa lingua stigmatizzata quelli che decidono, perché la minoranza latina può rivelarsi fondamentale negli Stati chiave. I Latinos sociologicamente sarebbero più vicini alle posizioni repubblicane, “sono più conservatori sulle questioni sociali e sull’aborto”, ma preferiscono i Democratici. Un sondaggio condotto da Univision nel mese di gennaio mostrava che il 27% dei Latinos considera ostile il partito repubblicano e che il 45% ritiene che non si occupi molto di loro.
Il motivo di questo “rifiuto” è la politica sull’immigrazione. Negli Stati Uniti ci sono 11 milioni di immigrati ispanici che sono clandestini e che non hanno la possibilità di mettersi in regola. Il duro discorso anti-immigrazione di Romney, uno dei candidati con più chance di affrontare Obama, spaventa coloro che parlano spagnolo. Marco Rubio, senatore Repubblicano della Florida, la grande speranza politica dei Latinos, lo ha ben in mente: o il suo partito cambia posizione sull’immigrazione o verrà sconfitto.
Insieme a quella spagnola, è la questione religiosa a essere in primo piano. Il New York Times ha titolato così la sua prima pagina: “Santorum difende il ruolo della religione nella vita pubblica”. I lettori del giornale liberal per eccellenza, quelli appartenenti alle classi agiate e acculturate delle due coste, dopo aver letto la notizia hanno criticato, scandalizzati, il fatto che il candidato cattolico dei Repubblicani avesse osato mettere in discussione la posizione di John F. Kennedy, l’unico presidente cattolico. Kennedy sostenne infatti la necessità di separare in maniera categoria il politico dal religioso. “Non credo in un’America in cui la separazione tra Chiesa e Stato sia assoluta”, aveva detto Santorum al notiziario della Abc.
Il dibattito è sicuramente interessante e appartiene alla miglior tradizione democratica americana. Se a Santorum sembra che Dio sia assente dalla vita politica degli Stati Uniti, dovrebbe fare un viaggio in Europa. Altra cosa è che Obama, con una mossa senza precedenti, abbia voluto limitare la libertà della Chiesa, facendo in modo che i centri sociali e ospedalieri cattolici agiscano in maniera contraria alle proprie convinzioni per quel che riguarda contraccezione e matrimonio omosessuale.
Ma il vero problema è che cosa intendano i Repubblicani, in particolare Santorum, per laicità positiva o contributo della religione alla vita democratica. Il caso dei Latinos e dell’immigrazione è emblematico. Il contributo della religione viene in troppi casi limitato a una serie di principi etici spesso riferiti all’ambito della morale sessuale, alle politiche pro-life e alla lotta all’ideologia di genere. Ma dovrebbe farne parte anche il modo con cui si guarda e si tratta lo straniero. Il contributo della fede alla vita pubblica, almeno per i cattolici, non è solamente o fondamentalmente morale, è l’incarnazione del Figlio di Dio e tutta la vita che questo evento genera: vita educativa, vita sociale e vita culturale.