Mio padre era un veterano della seconda guerra mondiale, e aveva partecipato a molte battaglie. Quando ero bambino, non mi ha parlato mai di ciò a cui assistette. E quanto mi avrebbe detto più tardi sarebbe servito, per lo più, a comunicarmi l’orrore di quel conflitto.
Quando divenne più vecchio, accadde una cosa strana. Iniziò a partecipare alle riunioni dei veterani che erano stati con lui in guerra. Col passare del tempo, per lui questi legami divennero vitali. La guerra aveva rappresentato per lui un’esperienza terribile, ma non poteva restare senza contatti con coloro che concretamente gli ricordavano quell’esperienza.
Che cosa lo spingeva inesorabilmente a stare con quegli uomini? Non ero un ritorno all’orrore cui avevano assistito, ma un’altra cosa: nel mezzo di quei fatti orribili, il soldato aveva scoperto che la persona che gli era vicina sarebbe morta per lui. Sul compagno che aveva accanto poteva contare, fino al sacrificio supremo.
Più il tempo passava, più mio padre desiderava ricollegarsi a quell’esperienza come a un segno estremo di amore. Era la stessa esperienza di san Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me”. Attraverso il dolore, l’apostolo ha riconosciuto la presenza di una persona che gli dava la vita. “E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (cfr. Gal 2,19-20).
Paolo era arrivato a riconoscere, nella fede, quell’unico che mi ha amato e ha dato la sua vita per me. Possiamo riconoscerlo anche noi? Questa è la sfida che il cristianesimo ci pone, dicendo: Egli è risorto.