La custodia cautelare in carcere, tra gli istituti previsti dal nostro diritto processuale penale, è il più “delicato”: in quanto prevede la restrizione massima della libertà personale in un momento in cui la responsabilità per la presunta condotta illecita non è stata ancora accertata.

La carcerazione preventiva, infatti, può essere comminata solo in presenza di gravi indizi e per le seguenti esigenze cautelari: quando vi sia un pericolo di inquinamento probatorio, che possa pregiudicare le indagini in corso; in presenza di un concreto pericolo di fuga dell’indagato; qualora vi sia il pericolo che la persona sottoposta alle indagini possa commettere ulteriori gravi reati o della stessa specie di quello per cui si procede.



È evidente, pertanto, che l’istituto non ha la finalità tipica della pena eseguita in carcere, dopo l’accertamento dei fatti illeciti commessi e la conseguente condanna divenuta definitiva. La delicatezza è proprio questa: in un ordinamento in cui vige la presunzione di innocenza, tale istituto dovrebbe essere utilizzato con molta attenzione e come estrema ratio; essendo, peraltro, previste diverse altre misure meno afflittive in grado di salvaguardare le predette esigenze cautelari (gli arresti domiciliari, il divieto e obbligo di dimora, l’obbligo di presentazione alla Polizia giudiziaria, il divieto di espatrio, ecc.).



Purtroppo, da alcuni decenni a questa parte si assiste, in un certo numero di casi, ad un uso distorto della custodia cautelare in carcere che, ovviamente in modo non esplicitato nei provvedimenti applicativi, cede ad istanze della magistratura e della collettività che nulla hanno a che vedere con la ratio della misura: mi riferisco, in particolare, all’esigenza investigativa della Pubblica Accusa e a quella più collettiva di vedere punite con un periodo di permanenza in carcere condotte per le quali, nel nostro sistema penale al collasso, non si riuscirà a pervenire ad una sentenza definitiva o, peggio ancora, si perverrà a condanne contenute che non devono essere eseguite in carcere.    



Con riguardo alla prima distorsione, è esperienza comune degli addetti ai lavori, che la custodia cautelare in carcere, non infrequentemente, sia utilizzata anche come strumento di pressione per ottenere ammissioni dei fatti o dichiarazioni di correità nei confronti di altri soggetti; questo fenomeno, che si è sviluppato in maniera abnorme nelle indagini del primo periodo cosiddetto di Tangentopoli, ha addirittura portato il Legislatore, nell’agosto del 1995, a modificare la lettera a) dell’art. 274 del codice di procedura penale (che disciplina, appunto, le “esigenze cautelari”), introducendo la seguente frase: “Le situazioni di concreto ed attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni, né nella mancata ammissione degli addebiti”. 

Inutile dire che detto divieto è di fatto rimasto sulla carta, in quanto l’estrema discrezionalità con cui il Giudice può valutare le esigenze cautelari, permette di utilizzare la misura anche a quel fine, senza che ciò emerga dai provvedimenti scritti.

La seconda distorsione risponde al comune sentire, cui la magistratura non è del tutto impermeabile, per cui la collettività – legittimamente – si scandalizza del fatto che, a fronte di indagini che rivelano condotte illecite e malcostumi diffusi, coloro che sono indicati come responsabili (anche se per fatti non ancora accertati processualmente), non siano adeguatamente perseguiti e puniti in tempi ragionevoli, o lo siano in forma lieve (con pene detentive sospese condizionalmente) o riescano a non esserlo del tutto per il passare del tempo utile alla prescrizione.

Complice di questo svilimento della nostra civiltà giuridica è sicuramente il ruolo, altrettanto distorto, che i mass media svolgono contemporaneamente allo svolgimento dell’attività investigativa: la pubblicazione di verbali di interrogatori e di dichiarazioni, di intercettazioni telefoniche e, in generale, di atti di indagine coperti dal segreto istruttorio, unitamente ai commenti e alle valutazioni degli autori degli articoli, crea sentenze di piazza sommarie, con indagati già ritenuti colpevoli dalla collettività che, di conseguenza, ne chiede l’immediata punizione.

Non è un caso che questo criticato utilizzo della custodia cautelare in carcere sia più ricorrente nelle indagini che hanno l’attenzione dei mass media, sia con riguardo ai soggetti che vengono indagati, sia con riguardo ad alcune tipologie di reato nei cui confronti la collettività è particolarmente sensibile, pur non presentando un elevato grado di pericolo per l’ordine pubblico.

Per uscire da questa situazione è necessaria una comune riflessione, che porti ad alcune riforme indispensabili perché la giustizia penale, nel rispetto delle regole e dei diritti della persona, funzioni meglio.

Innanzitutto l’esperienza degli ultimi vent’anni ha insegnato che fenomeni di illegalità diffusa come la corruzione o l’evasione fiscale, non si riescono a contrastare solo con l’azione giudiziaria, che deve accertare il caso singolo (non il sistema) e interviene in modo repressivo quando il fatto è già stato commesso: questi fenomeni impongono profonde riforme nell’ambito delle regole della pubblica amministrazione, del sistema fiscale, della politica, altrimenti si delega alla magistratura un compito che non le è proprio e che, oltre a non risolvere il problema, induce agli aspetti distorsivi che abbiamo analizzato.

L’altro punto sul quale è necessario ed urgente intervenire è il rapporto tra le indagini e la stampa: l’attuale utilizzo che viene fatto del materiale istruttorio, in palese violazione della segretezza dell’indagine, della presunzione d’innocenza dell’indagato, della sua immagine personale e professionale e del suo diritto di difesa, crea una “giustizia” parallela che non giova a nessuno, se non alle testate giornalistiche e alle trasmissioni televisive che aumentano le vendite e l’audience, ma produce un grave danno per la persona e per il sistema giudiziario.

È infine necessario che si creino le condizioni per una riforma organica del processo penale che permetta di accertare i fatti ed emettere le sentenze in un tempo ragionevole, intervenendo sugli istituti di diritto processuale che favoriscono un’esagerata diluizione del processo, operando una cospicua depenalizzazione delle condotte meno gravi che intasano il sistema e dotando l’apparato giudiziario di mezzi e risorse adeguate: ciò eviterebbe quella sorta di alibi o giustificazione che si coglie dietro un  certo utilizzo disinvolto della custodia cautelare in carcere.