Sento dire spesso che l’Italia non ha una classe dirigente. Ne è prova l’espressione “casta”, coniata da un famoso giornalista, nella quale ci si è riconosciuti immediatamente, prima di ogni riflessione. Per tutti, o quasi, esiste in Italia una “casta” ma non una classe dirigente: e tra l’una e l’altra corre una bella differenza.
C’è però un’altra crisi, ben più radicale, di cui a mio avviso questo problema della classe dirigente è una conseguenza. Io la chiamo crisi di autorevolezza.
Con questa parola non intendo identificare alcun atteggiamento autoritario nel governo di un paese, di un’azienda, di una scuola o di una famiglia. Non intendo alludere ad alcuna esperienza totalitaria.
Non intendo nemmeno, però, quella timidezza, quel calo di virilità, quella perenne incertezza che caratterizza, secondo i giornalisti di costume, l’uomo di oggi, al cospetto di una donna sempre più sicura di sé, spregiudicata e volitiva.
E non m’interessa, infine, tutta la polemica sugli esiti della pedagogia permissiva che ha invaso negli scorsi decenni prima i rapporti docente-allievo e poi i rapporti padre-figlio. L’immagine del padre di oggi, succube dei capricci dei figli e incapace di opporvi una precisa linea educativa, non spiega niente, e ha bisogno, anzi, di essere a sua volta spiegata.
Quando uso la parola “autorevolezza” intendo semplicemente quella forza, quella capacità di destare vero interesse, che induce il passante distratto a fermarsi e ascoltare. Intendo, in poche parole, l’avere qualcosa da dire.
Ma per avere qualcosa da dire è necessario stare fuori dal coro. O, se non questo, bisogna essere almeno dei solisti. Un giornalista autorevole è quello che ci induce ad acquistare quel certo giornale solo per sentire la sua voce. Uno scrittore autorevole è quello che sa accendere una luce sulla complessità del presente. Chi fa cinema o teatro è autorevole quando i suoi film o i suoi spettacoli rappresentano una posizione originale. Un politico autorevole è chi sa tenere la testa un filo più alta rispetto alle logiche di schieramento.
Il passato suggerisce tantissimi nomi, da Pasolini a Gianni Brera, da Montanelli a Strehler. C’è chi dice che oggi non c’è più bisogno di maestri, ma si sbaglia di grosso. A noi è necessario oggi più che mai chi dimostra una vera originalità, perché l’uomo originale non è affatto un tipo strambo: è chi fa i conti con l’origine dei propri giudizi, delle proprie opere, delle opinioni che professa. E noi abbiamo bisogno di questo, per essere originali – cioè veri – a nostra volta.
Io non posso aprire un importante quotidiano, o il suo inserto o supplemento, e imbattermi in discorsi generici, buoni per tutti. Non posso accettare che questi discorsi siano solo l’elaborazione dei luoghi comuni che tutti usiamo e pensiamo senza che siano mai il “nostro” pensiero.
Sappiamo bene che questo “pensiero unico” in cui siamo immersi, e che ci penetra, non è un vero pensiero. Gli resistiamo magari in politica, ma poi ne siamo vittima in altri campi, per esempio nell’affettività, nella scelta dei film da vedere e dei libri da leggere, nel modo di parlare di sport. La sua composizione è nota: un po’ di progressismo, un occhio alle mode di tutti i tipi, grande apertura con chi è aperto (ossia con chi è come noi), grande tolleranza verso tutti quelli che non ci pestano i piedi, un linguaggio sempre politically correct.
Ma è un pensiero anonimo, che sa abbracciare solo cause generiche, senza mai scendere nel concreto della realtà, che è sempre più ardua e irriducibile. Siamo passati da “handicappato” a “disabile”, da “disabile” a “diversamente abile”, ma nonostante tutto lo scandalo resta tale e quale.
Senza uno sguardo autorevole che ci introduca ad essa, la realtà ci appare insensata, crudele, tragica, assurda; da essa cerchiamo rifugio creando intorno a noi una barriera difensiva: psicologica, sociale, architettonica…
E’ la genericità del pensiero, è la mancanza di originalità e di autorevolezza a produrre poi i particolarismi, che ne sono una conseguenza. Impossibile non schierarsi. Trovatemi un solo opinionista veramente libero, un intellettuale che abbia giurato fedeltà solo al proprio pensiero, alla propria origine. Trovatemi un giornalista che non sia accasato da qualche parte o che non dica quello che dice solo per tenere in piedi il proprio gioco. Trovatemi un artista capace, ad ogni opera, di rischiare tutta la propria reputazione, di non strizzare sempre l’occhio di qua e di là.
Non dico che non debba esserci un gioco delle parti, ci mancherebbe: ma non ci si può ridurre ad esso. Per questo, pur non condividendo il suo pensiero, ho stima di Nanni Moretti, e lo accetto nei suoi momenti luminosi e nelle sue derive. Lui ha, certo, un suo mondo di riferimento, ma non coincide con esso: anche per questo è un autore importante. Cioè un autore, uno che ha autorità.
Fermarsi alla constatazione della mancanza di una classe dirigente è ben poca cosa, ed è anche fuorviante, poiché ci induce a pensare di essere migliori di chi ci governa.
Ma non è questione di essere migliori o peggiori. I Padri della nostra Costituzione si imposero di scendere fino in fondo alla radice del Paese, facendo ciascuno i conti con la propria provenienza ideologica e mettendola sul tavolo. Ne uscì lo splendido prodotto che tutti conosciamo. La stessa cosa è chiesta, oggi, a tutti noi, per ritrovare le ragioni della nostra convivenza.