Una donna irachena sulla quarantina, cristiana, nubile, parla un ottimo italiano. Ha l’aria stanca, come stanco è lo sguardo e stanche sono le parole. Vive in una grande città italiana dove dopo parecchie traversie è approdata a un buon impiego. Si è sempre fidata dei sacerdoti e delle loro indicazioni: nelle chiese orientali il prete estende la sua autorevolezza-autorità ben oltre il recinto parrocchiale. Fu un sacerdote a raccomandarle di studiare in Italia, e poi a insistere perché ci ritornasse data la situazione in patria.
Negli anni è stata raggiunta da vari familiari. Uno è rimasto invalido a causa dello scoppio di una mina a Baghdad, un altro è arrivato con moglie e figli tra i quali una sposata e con figli piccoli. Alla fine si è composto un gruppo piuttosto articolato su tutte le età e le culture generazionali. Vivono in due piccoli appartamenti attigui, alloggiati un po’ così, ma non è certo un dramma (per dire: tanti greci, cittadini di questa Europa, dormono nei garage; è lo spettro agitato dal premier Monti quando dice in modo troppo brutale e forse non del tutto appropriato “meglio le tasse che finire come la Grecia”).
Qui in Italia campare è sempre stato un problema. Per molto tempo l’aiuto di un sacerdote ha garantito una sopravvivenza quasi normale (con ragazzi a scuola e all’università) grazie a piccoli lavori di cucina e pulizie in un istituto religioso. Ma da un paio d’anni la fonte di sostentamento si è prosciugata. Restano episodici introiti dovuti alle lezioni di inglese di un giovane membro della famiglia. E resta il lavoro della signora, sul quale ormai tutti pesano. Hanno chiesto aiuto dovunque. E ora sospirano pensando a quando il vescovo iracheno di passaggio in Italia aveva loro raccomandato di andarsene altrove. Qui non c’è una comunità irachena organizzata, “con sacerdoti e aiuto reciproco” come invece in Svezia e Germania, per non parlare degli Stati Uniti.
La loro situazione è complessa, e anche un po’ confusa: sono arrivati in Italia nel momento della massima pressione anticristiana a Baghdad; hanno perso lavoro, negozi e case, hanno subito sequestri. Qui hanno ricevuto lo status di rifugiati, ma nessuna forma di sostegno. Vorrebbero lavorare ma non trovano, vorrebbero emigrare ma non possono. All’interno del gruppo la rassegnazione sta scivolando nella disperazione. Una nipote è intenzionata a tornare a Baghdad coi figli piccoli perché altri parenti rimasti laggiù potrebbero ospitarla, anche se il marito potrebbe raggiungerla soltanto dopo un anno: deve continuare a curarsi qui per un trauma alla schiena subito in patria dai persecutori.
La signora è esaurita e non ce la fa più economicamente e psicologicamente a sostenere tutta la storia che si concentra sulle sue piccole spalle. La storia grande, quella del suo Paese travolto dalle guerre e della sua fede millenaria circondata di ostilità, e quella piccola del suo gruppo familiare squassato dalle tensioni e dalle angosce. È il venerdì di passione di una povera signora dallo sguardo smarrito. Un niente nel grande ingranaggio del mondo. Che cosa è una famigliola sradicata davanti alla crisi del capitalismo, davanti al conflitto tra Islam e Occidente, davanti alla debolezza della cristianità?
È il venerdì santo e anonimo di gente sballottata da eventi incommensurabili. Per Erich Auerbach, il grande filologo tedesco, il racconto evangelico trasse dal nulla uomini e donne ordinari, mai stati degni di attenzione fino a quegli eventi, e li rese protagonisti assoluti e per sempre: in quell’angolo sperduto, lungo le strade assolate della Palestina, nell’incontro con qualcosa di inspiegabile, il pescatore e la contadina, il passante e la prostituta sono diventati il centro di una storia che pur raccontata milioni di volte non finisce mai di sbalordire e sconcertare.
È l’unico caso in cui la grande e la piccola storia coincidono, in cui un evento nel tempo ha segnato l’intero corso del tempo, in cui la sofferenza di una piccola signora irachena diventa un patrimonio inestimabile.