È curiosa la sorte che il nostro tempo riserva alla devozione mariana e che il mese di maggio, tradizionalmente dedicato alla Madonna, ci invita a considerare. Da un lato domina una larga indifferenza, se non un infastidito disagio. Non si capisce bene perché ci si dovrebbe soffermare a considerare la vicenda di una donna vissuta duemila anni fa, la cui venerazione – dicono gli intellettuali della fede – rischierebbe di mettere in ombra il cosiddetto essenziale, cioè l’insegnamento di Cristo. Al massimo, avendo già effettuato la tacita riduzione di Gesù, appunto, al suo messaggio morale, si parla della Madonna come della persona umana che in modo supremo ha realizzato quelle norme: un puro esempio.
Dall’altra parte c’è la sorprendente continuità della pietà popolare alla Vergine, che chiunque può constatare frequentando un qualsiasi santuario della penisola in questo mese. Lì si capisce bene che la gente normale, quella che magari la chiesa della parrocchia la frequenta poco, ha un feeling particolare con Maria, si fida a porre nelle sue mani i bisogni che urgono veramente. Allora si vede la nonna che strofina sulla statua della Madonna la cuffia del nipotino, i fidanzatini che pregano tenendosi per mano, il giovanotto coi piercing che guarda impacciato forse perché non ricorda le parole di nessuna preghiera, la signora che a stento trattiene le lacrime perché sta portando ai piedi di Maria un qualche nascosto dolore, l’operaio o il dirigente che pregano a braccia conserte pesando forse alla precarietà del loro lavoro. È tutto un popolo che spera, che cerca un luogo di protezione: «sub tuum praesidium».
Questo popolo intuisce quello che troppi funzionari ecclesiastici non capiscono più. Che, cioè, la radicale novità del cristianesimo è l’incontrabilità del divino nell’umano. L’umano del Figlio di Dio, anzitutto, e poi l’umano di tutti gli esseri che Lui ha coinvolto. A partire da colei che per prima, nella sua carne e non nella sua mente, ha accolto l’inaudito annuncio di Dio fatto uomo. Maria resta nella storia come permanente esplicitazione di questo incredibile metodo.
Non per nulla riflettendo su se stessa come continuità storica del metodo dell’incarnazione, la Chiesa ha dedicato l’intero capitolo finale della costituzione dogmatica del Concilio Vaticano Secondo, la Lumen gentium,proprio ala Madonna, «colei che nella Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più alto e il più vicino a noi». Strano paradosso: «il più alto» sembrerebbe indicare una lontananza ed invece il suo posto è «il più vicino». Perché di un Dio vicino ha bisogno l’uomo e parla l’annuncio cristiano. «Certo, Gesù Cristo è la luce per antonomasia, il sole sorto sopra tutte le tenebre della storia. Ma per giungere fino a Lui abbiamo bisogno anche di luci vicine – di persone che donano luce traendola dalla sua luce ed offrono così orientamento per la nostra traversata. E quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza?» (Benedetto XVI, Spe salvi). Perciò lietamente ci rivolgiamo a lei, «di speranza fontana vivace».