Su Repubblica dell’altro ieri è uscito un articolo molto bello, a firma di Ilvo Diamanti, dedicato a un problema al quale si dedica troppo poca attenzione.
Molto si è parlato, in questi mesi, del fenomeno dei suicidi per mancanza di lavoro: operai, impiegati ma soprattutto piccoli imprenditori. Non si tratta tuttavia di cosa nuova – anzi, secondo attendibili dati statistici il fenomeno sarebbe addirittura in calo.
Questo però non ci consola molto. Scusate il cinismo, ma se il fenomeno è in calo può solo significare che quelli che volevano uccidersi perlopiù l’hanno già fatto. I morti ci sono comunque, e il loro numero cresce, il bilancio si fa sempre più pesante e gli indici lasciano il tempo che trovano: un morto in più è comunque un morto in più.
Ha comunque ragione Diamanti quando osserva come il nostro bisogno di parlarne sia esso stesso un dato che merita qualche riflessione. È esperienza quotidiana. Il nostro modo di raccontare (o di non raccontare) le cose è infatti a sua volta una “cosa”, ed è perfettamente in grado di modificare la realtà tanto quanto gli avvenimenti che racconta.
L’informazione ha un suo borsino emotivo, che deve seguire se vuole rimanere sul mercato. C’è stato un periodo in cui non si parlava che della depressione, un altro in cui il tema del momento era l’Alzheimer. C’è stato un periodo in cui le cronache si riempivano di serial killer, che poi si videro rubare la scena dai pedofili. E così via. Oceani d’inchiostro sono stati spesi su questo argomento, e schiere di psicologi hanno conosciuto la notorietà discutendo di paure collettive.
L’impressione, però, è che in questo caso ci sia dell’altro. Diamanti fornisce, nel suo articolo, molti dati. Uno mi pare particolarmente interessante: nel 2005 il 25% degli italiani riteneva di far parte della classe medio-bassa, mentre oggi, a sette anni di distanza, la percentuale è salita al 58%. Io non capisco bene in che misura questo sentimento sia dovuto a un reale peggioramento della situazione (pensiamo alla disoccupazione giovanile nel nostro Paese) e in che misura sia dovuto, viceversa, al racconto che ce ne dà il mondo dell’informazione.
Ma proprio nel modo di raccontare queste vicende, più ancora che nelle vicende stesse, noi scopriamo la radice del problema: una fragilità antropologica profonda, figlia di una cultura deviata, che ha fatto del lavoro l’unico fattore di coesione sociale, nonché l’unico significato della vita umana. Ne consegue che, perduto il lavoro, la vita non ha più senso.
Poco abbiamo riflettuto su questa ideologia pericolosa, la cui diffusione, soprattutto nel Norditalia, non va sottovalutata, e che è – come tutte le ideologie – la caricatura di un valore positivo. È vero, certo, che l’uomo senza lavoro è offeso nella propria dignità, ma una dignità offesa vuole riscatto, non vuole la morte. Per passare dall’ingiustizia subita al suicidio ci dev’essere anche un altro problema. Il suicidio è, infatti, anche un messaggio, una parola gettata contro il mondo, un atto di sfiducia nella società, come dire: “sono stato offeso nella mia dignità, e so che voi non mi aiuterete”.
Questo “altro problema”, lo dice bene Diamanti, è il deterioramento del contratto sociale, la sfiducia negli altri. Finché l’economia funzionava, il problema poteva passare in second’ordine, adesso non più.
In breve: il problema, più del lavoro, è la comunità. È l’unità tra le persone. In America la crisi, che negli anni scorsi ha cancellato milioni di posti di lavoro, riducendo intere città a carcasse spettrali, ha coinciso con una ripresa fortissima dell’impegno religioso: chi perdeva il lavoro si dedicava maggiormente all’educazione dei figli, all’animazione delle funzioni religiose, al coro parrocchiale, e così via. E continuava a vivere, aspettando – in compagnia – tempi migliori.
Ma questa non è solo una virtù americana. Io per esempio dirigo da dieci anni, con un amico, una rassegna teatrale nella bergamasca, e soprattutto negli ultimi tre anni la crisi si è fatta sentire non poco. Ma il dato interessante è che, con la crisi, gli spettacoli di gran lunga più graditi e frequentati dal pubblico si sono rivelati quelli di argomento religioso, e questo a dispetto dei titoli di prestigio che attori e registi potevano vantare.
Di questo abbiamo bisogno: di qualcuno che ci accolga, e accogliendoci accenda in noi una speranza vera. La Chiesa si comporterebbe da autentica criminale se non raccogliesse questo grido, impegnandosi strenuamente, con tutta sé stessa, a questo scopo.
Abbiamo bisogno di qualcuno che, abbracciandoci, ci dica in modo persuasivo che il nostro valore è inestimabile, anche se abbiamo perso il lavoro.