Di questi tempi una frase abbastanza comune nei nostri discorsi, negli articoli di giornale, nei messaggi sms suona così: “È un momento difficile”. Quest’ultima parola è un composto che deriva dal latino: dis è una particella che dà il senso contrario a quello che segue; facile è abbreviazione di facibilem, (da facere, fare) cioè cosa che si fa agevolmente, senza incontrare inciampi, come una strada pianeggiante senza buche, senza dossi e senza pericoli sul percorso.
Dis-facile, cioè difficile, è dunque, un tempo, una lettura, un rapporto, un’impresa in cui si presentano degli ostacoli, che normalmente non si erano previsti. Ostacoli che ci vengono incontro dall’esterno e, nello stesso tempo, mettono “in difficoltà” le risorse interne con cui ci apprestavamo a “fare” quella determinata cosa. Dell’ostacolo esterno ci stupiamo con amarezza; ci sembra assurdo che realizzare quel che desideriamo sia irto di difficoltà, che le nostre vicende non siano tutte come quella strada piana. Ci si stupisce e arrabbia se oggi è stranamente complesso quello che ieri era semplice, contorto quello che era lineare. Allora si finisce per maledire qualcosa o qualcuno, si cerca – o ci si fa suggerire – un capro espiatorio, sul quale riversare la rabbia suscitata dalle difficoltà che si incontrano.
Il pericolo è che, come ha scritto recentemente Remo Bodei, visto che gli ostacoli non spariscono subito, si passi velocemente dall’indignazione alla disperazione. In tal modo, invece di continuare tenacemente a fare, pur nella fatica, si dis-fa. E quando questo fenomeno assume livelli profondi e consistenza generale, una famiglia, un’amicizia, una città, un popolo rischiano il disfacimento. Con gli ostacoli interni la cosa è ancora più complicata. Prima di tutto non è ovvio che li si ammetta; ci si può fermare al lamento verso l’esterno e basta. Ma quando si riconosce che un certo obiettivo è difficile per qualche incapacità o limite o piccolezza che dipende da noi, vien la tentazione di rinunciare a desiderare quel che si desiderava. Invece la saggezza popolare dice, senza scandalizzarsi, che “chi fa falla”, cioè sbaglia, si espone al fallimento.
E questo, in fondo, è della natura del nostro essere: non siamo infallibili, ma non per questo rinunciamo a fare tutti i tentativi che ci sembrano giusti. E siamo ultimamente tranquilli in quanto disponibili a correggerli in continuazione.
Per i cristiani questa dinamica è chiarissima e pacificamente accettata: Ecclesia semper reformanda, la Chiesa deve continuamente mettere mano alla sua purificazione e proprio in questo sta il sugo del suo camminare nella storia. Del resto, nel vangelo la parola che stiamo analizzando ricorre una sola volta: quando Gesù dice che è “difficile” per un ricco, cioè per chi pensa di non aver dentro di sé impotenza e incapacità, entrare nel regno dei cieli. Anzi, non è solo difficile: è impossibile. Ma Gesù aggiunge che “ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio”. Ed è questa la certezza del cammino.