Anche se non ci pensiamo quasi mai, la famiglia è la più grande tra le opere dell’umanità, senza paragone con nient’altro. La famiglia è un bene totalmente umano. Tra gli animali i figli dopo un po’ smettono di essere figli, il padre non è un vero padre, non sa realizzare la sua paternità, e la madre ha come unico scopo lo svezzamento dei piccoli. Poi si spalancano le porte del vasto mondo, e tutti diventano uguali. Un padre e una madre umani, viceversa, lo sono per sempre, nel senso che la paternità e la maternità sono ferite che sanguinano fino alla morte, dentro la morte e probabilmente anche dopo la morte. Perfino gli dèi antichi erano in difficoltà quando dovevano assumere un tale onere, anche loro preferivano scappare via, come gnu, come coccodrilli, come gabbiani.
Ma Jahvè no, Lui è come una donna che solleva il suo bambino alla guancia, e il Suo intimo freme di tenerezza e di compassione. E poi decide di nascere, povero e fragile, dal seno di una donna che lo amerà come ogni madre ama il suo bambino, e che piangerà la Sua morte con lo stesso strazio di tutte le madri cui sia stato restituito il corpo del figlio giovane ucciso da uno dei tanti accidenti della storia: guerra, malattia, quando non un’infida casualità. E il Cristianesimo c’insegna che la tenerezza e lo struggimento di un Padre, la premura e il pianto di una Madre sono l’origine della salvezza del mondo. Nient’altro che questo. Dio ci ha salvati nella Sua umanità, e in questo stesso modo continua a salvarci.
Ma Dio nacque povero. Povertà e famiglia si uniscono in un legame indissolubile. Nella famiglia, infatti, l’uomo accetta in modo molto concreto la propria dipendenza: il self-made man non è adatto a fare famiglia. I legami ci piegano le ginocchia, ci domandano umiltà: i difetti del marito e della moglie, il fatto che i figli non sono quasi mai come noi vogliamo, e poi l’educazione da seguire passo passo, i dolori imprevisti, le preoccupazioni che limitano spesso il nostro slancio orgoglioso…
Pensate a un intellettuale, poniamo uno scrittore, o un filosofo oppresso dal pensiero di un figlio drogato o ubriacone o malato: come diventa più difficile essere sempre brillante, in forma, avere la parola giusta al momento giusto. Questo intendo con la parola “povertà”: qualcosa che ti limita, ti rallenta, a volte ti confonde e ti rende meno piacevole, forse meno bravo. Ma più vero. Enormemente. Moglie (o marito) e figli sono la prima regola monastica della famiglia, la prima forma di obbedienza. La famiglia non è l’esito di un mettere-insieme, una composizione di qualcosa che sta prima: è una vita nuova, un essere nuovo, così come l’acqua non è solo la somma di ossigeno più idrogeno.
S. Francesco d’Assisi comprese in profondità questa cosa quando legò indissolubilmente la dedizione totale a Dio e la mendicanza. Se ti vuoi consacrare a Lui, rinunciando a una famiglia tua, devi essere al tempo stesso l’ultimo degli ultimi, vivendo della carità dei ricchi e perfino dei poveri. Noi percepiamo queste cose, oggi, con un filo di moralismo che Francesco, viceversa, non conosceva. Lui sapeva bene che senza i legami che (provvidenzialmente) lo piegano a terra, l’uomo tende a insuperbire, e che il sacrificio della carne può accendere ancor più la brama di ricchezza e di potere.
Francesco sapeva di quanta miseria ha bisogno l’uomo per scoprire quello che è realmente, il proprio bisogno, il proprio stato di strutturale necessità. E trovò nella mendicanza lo specchio più esaustivo della condizione familiare. A questo, infatti, serve la famiglia: a farci scoprire (indipendentemente dal conto in banca) quello che siamo alla radice, cioè mendicanti.
Pensate, cari lettori, cosa succederebbe se la famiglia fosse cancellata: quanta superbia, quanta presunzione, quanto artificio, quanta astrazione e, infine, quanto sterminio dilagherebbero per il mondo.