Come mai – si chiede Claudio Risé in un recente saggio – molte persone della società occidentale sono affette dalla strana malattia di faticare a dormire? Un recente studio dice che un italiano su tre soffre di simili disturbi. È un dato rilevante. Risé afferma che «dietro il contemporaneo “timore di dormire” si intravede la paura di un incontro con un mondo “altro”»; cioè il sonno mette paura perché in esso, in forma di sogni, riemergono dimensioni che sono state espulse dall’abituale esperienza cosciente e che non si vorrebbe considerare. Lo psichiatra ne cita due: quella del «sacro» e quella dell’appartenenza. La dimensione religiosa, espulsa dalla vita consapevole e non più attiva in essa, si ripresenta nel sogno; così come vi torna l’esigenza di rapporti così intensi da non essere schiacciati dalla regola del tornaconto o del ruolo nel meccanismo sociale, come invece accade nella vita vissuta.
Non ho nessuna competenza per entrare in questo tipo di argomentazioni. Tuttavia quello che riesco a capire mi sembra molto interessante. La difficoltà di dormire – potremmo riassumere – è dovuta al fatto che intere regioni costitutive della persona sono talmente dimenticare e represse che possono riaffiorare solo in quel momento in cui la coscienza è addormentata; sono come un fondo dell’io che si vorrebbe eliminare e che invece è sempre lì a interrogarci e provocarci. Questo fondo è «altro» da noi eppure in noi conficcato come parte della nostra stessa costituzione. Insomma, gli altri – intesi veramente come «altro» e non semplicemente come strumenti della nostra soddisfazione (affettiva, erotica, di potere, di ruolo, di sostegno) – sono una continua contestazione della nostra autosufficienza. E, per di più, rimandano alla suprema alterità di Colui dal quale sappiamo, seppur indistintamente, di provenire: l’Altro con la maiuscola (tornano in mente le riflessioni dello stesso Risé sulla distruzione che la nostra cultura ha operato della figura del padre, immagine chiarissima del Padre).
Il pensiero dominante, quello che respiriamo e accettiamo nella vita «cosciente», quella che non dorme, ci suggerisce instancabilmente che il nostro io lo produciamo a noi stessi, che la nostra consistenza personale è il risultato di una saggia organizzazione delle nostre risorse, di un oculato utilizzo delle nostre energie e che i rapporti sono tutti funzionali ad un obiettivo autonomamente identificato e calcolabile nei passi che si devono compiere per raggiungerlo. E così, soli e preoccupati, non dormiamo; perché c’è quella famosa regione sconosciuta che non possiamo impunemente dimenticare. La regione in cui ci accorgiamo di essere «dati» e quindi inevitabilmente lanciati dentro il rapporto con lo Sconosciuto che ci dà a noi stessi e con tutti gli altri che, da un lato, sono nella nostra stessa condizione e, dall’altro, ce la ricordano con la loro incoercibile alterità. È la presunzione moderna di essere noi e solo noi i costruttori autonomi del nostro io che non funziona. Ma l’agitarsi continuo delle nostre notti – nella città che, come la New York della canzone, non dorme mai – è un’inquietudine che potrebbe salutarmente farci riflettere: se riconsideriamo e accettiamo l’altro/Altro, possiamo tornare ad essere come il bambino del salmo, che dorme «tranquillo e sereno in braccio a sua madre».