Il terremoto e la verità

La vita è contraddistinta dalla precarietà. Di fronte a tale consapevolezza, spiega PIGI COLOGNESI, ci si può rassegnare all’effimero o dedicarsi alla ricerca di una verità definitiva

«Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le Piramidi d’Egitto, e per l’oscillazione generale e per la propria. La stessa costanza non è altro che un’oscillazione più debole». Sono parole di Michel de Montaigne i cui Saggi – opera centrale per il passaggio alla modernità – sono stati recentemente ripubblicati. Che «tutte le cose oscillano» è esperienza evidentissima e quotidiana per gli abitanti delle zone terremotate: le mura che fino a ieri offrivano solido appoggio oggi minacciano di crollare, la torre che costituiva elemento essenziale del paesaggio familiare è caduta. Ma in fondo ogni persona minimamente pensosa sa che la precarietà, il continuo movimento, la transitorietà caratterizzano la natura attorno a noi ed anche – ciò che più importa – noi stessi.



Di fronte a questa constatazione si apre un bivio. La prima strada percorribile è – come scrive Remo Bodei presentando i Saggi – quella di non affannarsi a cercare «risposte definitive», non ambire ad una felicità permanente, ad una verità indiscutibile e assoluta. È una strada che appariva ragionevole a Montaigne in un periodo e in un Paese – la Francia del secondo Cinquecento, dilaniata dai conflitti di religione tra cattolici e protestanti – in cui spesso le «risposte definitive» erano imbracciate come armi contro gli avversari e la «verità» usata come un manganello. Meglio accontentarsi di verità parziali, di speranze limitate, di soddisfazioni quotidiane piuttosto che dell’inarrivabile felicità. Procedendo in questa direzione, si giunge però a preferire la precarietà rispetto alla difficile esigenza di stabilità e, quindi, a sentire nemico chi, come la Chiesa cattolica, continua a sostenere che verità, libertà, felicità non sono chimere irraggiungibili, ma l’unica destinazione adeguata all’uomo e, per di più, una destinazione di cui si può da subito sperimentare una caparra.



È questa la seconda strada. In essa realisticamente non si finge che la precarietà non esista o che non ci sia oscillazione di sé e delle cose, né ci si nasconde che le «risposte definitive» possono essere travisate e strumentalizzate.

In essa però, nello stesso tempo, non si è disposti a tacere che l’esigenza di stabilità è più radicale della constatazione dell’effimero e non si inganna, con speranze piccole e felicità a portata di mano, lo struggimento che tende a quelle grandi e permanenti. In questa strada chi afferma di possedere le «risposte definitive» non vanta una propria superiorità o una volontà di esclusione: semplicemente è contento del tesoro trovato e vorrebbe farne parte tutti. A questo riguardo è abbastanza frequente leggere saggi e inchieste che incolpano la Chiesa cattolica di essere arroccata sulle sue «risposte definitive» senza mostrare nessuna disponibilità ad adeguarsi alla liquida flessibilità in cui il mondo cosiddetto secolarizzato si è ormai assestato. Se la Chiesa – dicono – rinunciasse alla pretesa della definitività, verrebbe compresa ed accettata molto più facilmente dal mondo moderno. Probabilmente è vero: all’inizio verrebbe accettata come una delle tante voci del multiforme coro della precarietà, ma ben presto sarebbe dimenticata o buttata come ultimamente insignificante. Invece offrendo la sua «risposta definitiva» la Chiesa riconosce ed afferma la statura «grande» della ragione umana. Una ragione che anela a poter dire col salmista: «Non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare».



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