Nel bene e nel male l’euro è importante, e così l’Unione europea. Siccome però l’economia non è solo moneta e finanza, non è affatto il caso di credere che adesso tutto dipenda dagli esiti della sessione del Consiglio europeo in corso a Bruxelles. C’è soprattutto da augurarsi che non ce ne vengano ulteriori guai, ma è difficile sperare che ce ne possa venire una significativa spinta all’uscita dalla crisi. 

Una tale spinta ci può derivare a mio avviso solo da una ripresa dei consumi delle famiglie e da un’impennata delle esportazioni, e finora Monti non si cura né di una cosa né dell’altra. In sostanza questo governo tira a tutta forza la leva della pressione fiscale e basta; per tutto il resto siamo al minuetto. Esemplare al riguardo il caso della revisione della spesa pubblica, detta fastidiosamente spending rewiew in forza dell’anglomania del momento. Il meccanismo è di quelli fatti apposta perché alla fine la montagna partorisca magari un topolino, ma più probabilmente un bel nulla (salvo una messe di gettoni per commissioni mobilitate al riguardo).

Tanto più considerando l’urgenza di quella ripresa dei consumi delle famiglie di cui si diceva, sarebbe molto più efficace (e anche politicamente ben più mobilitante) prendere le mosse dal taglio della pressione fiscale per giungere al taglio della spesa, e non viceversa. Porsi ad esempio come obiettivo immediato, del mese venturo, l’esenzione dalle imposte dei primi 500 o 1000 o 1500 euro mensili di reddito delle persone (per semplicità uguale per tutti) con immediati riflessi sulle ritenute d’acconto; e poi andare a vedere quanto e dove si dovrebbe tagliare della spesa pubblica e/o quanto si dovrebbe vendere del patrimonio infruttuoso dello Stato per rendere possibile una tale franchigia. Si aprirebbe così un grande dibattito politico una volta tanto chiaro e trasparente, in base al quale prendere delle chiare e trasparenti decisioni.

In secondo luogo varrebbe la pena di fare una politica sistematica di accompagnamento della nostra industria manifatturiera nei nuovi mercati emergenti di quei Paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia che in questi ultimi anni, avendo subito poco o niente i contraccolpi della crisi in atto nel mondo sviluppato, stanno facendo registrare dei tassi di crescita molto elevati, talvolta anche a due cifre. Qui si stanno formando dei nuovi ceti medi che sono in una fase di accesso iniziale a consumi di secondo livello simile per molti versi a quella che l’Italia attraversò nel decennio 1955-65: è un grande campo aperto al made in Italy. 

In terzo luogo, invece di soffocare gli enti di governo locale con i tagli lineari dei trasferimenti e con l’iniquo giogo del “patto di stabilità”, basterebbe dare piena autonomia finanziaria a Comuni e Regioni fino alla concorrenza tra loro sul piano dell’attrattività fiscale per ottenere in breve tempo ciò che è normale nei Paesi dove tale sistema è  una realtà consolidata: ovvero il minimo di pressione fiscale con il massimo dell’efficienza. Non è una cosa dell’altro mondo, è una realtà consolidata ad esempio in Svizzera, subito al di là della nostra frontiera di Nordovest: decine di grandi e piccole aziende lombarde, valdostane e piemontesi stanno emigrando o sono già emigrate  proprio per questo nel Vallese, nel Ticino e nei Grigioni.