Agosto si aprirà con un incontro tra Monti e Rajoy: la Spagna e l’Italia sono in cerca di soluzioni che possano convincere la Bce ad acquistare il loro debito. La Spagna ha bisogno che Francoforte cambi atteggiamento. L’ultima manovra approvata da Rajoy, pari a 60 miliardi di tagli per i prossimi tre anni, infatti, non è servita a fermare l’attacco dei mercati. Mentre siamo sull’orlo del precipizio, i sondaggi dicono che una parte consistente della società spagnola è arrabbiata per via dei tagli.
La riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici, l’abbassamento dei sussidi di disoccupazione e l’innalzamento dell’Iva, secondo gli ultimi sondaggi pubblicati da El País e da El Mundo, sono contestati da oltre l’80% della popolazione. Si tratta di misure imposte da Bruxelles, di requisiti imprescindibili per rendere possibile il salvataggio delle banche e per ricevere gli aiuti europei, ormai sempre più indispensabili. La critica che si può muovere al governo è di aver tardato ad adottare queste misure.
I sondaggi sembrano segnalare che le proteste nelle strade non esprimono più soltanto le istanze di una minoranza, bensì il sentimento generale. Se le cose stanno effettivamente così, ci troviamo di fronte a un “divorzio” tra realtà (la situazione più grave che sta vivendo la Spagna da quando è tornata la democrazia) e opinione pubblica. Ciò può essere dovuto a una mancanza di informazione o al fatto che portiamo avanti, con ignoranza colpevole, le dinamiche un modello economico insostenibile, in gran parte fondato sulla bolla immobiliare.
Non c’è una consapevolezza chiara del fatto che la Spagna ha perso la fiducia degli investitori internazionali perché non ha raggiunto gli obiettivi di riduzione del deficit. Nemmeno si vuole riconoscere quello che con sufficiente chiarezza ha affermato alla Camera dei deputati il ministro del Bilancio, Cristobal Montoro: «Non abbiamo abbastanza denaro per finanziare i servizi pubblici».
Questa mancanza di consapevolezza sociale certamente ha a che fare con quanto accaduto negli ultimi decenni. La Spagna, infatti, fino a poco più di 30 anni fa, era considerata un Paese in via di sviluppo. Il Pil pro capite è passato dai 7.284 dollari del 1980 ai più di 30.000 del 2010. Questo anche perché ha ricevuto un sacco di soldi dall’estero: prima grazie ai fondi strutturali e poi per effetto dell’entrata nell’euro. E tutto ciò ha provocato un miraggio.
In questo momento, in cui molti provano ad aggrapparsi al passato e sono perplessi davanti alla scomparsa di un mondo che consideravano conquistato per sempre, è necessario ricercare le radici dello sviluppo. È la questione più urgente. Ed è su questo terreno che la presenza cristiana può dare un contributo. Non perché affermi una dottrina o un’etica, ma perché può offrire una testimonianza libera di persone che si lasciano provocare da quello che sta succedendo e che trovano energie nuove per far fronte alla difficoltà.
L’enciclica Caritas in Veritate, in una delle sue affermazioni più provocatorie, sostiene che «primo e principale fattore di sviluppo è l’annuncio di Cristo» (n. 8). Ci si può limitare a una interpretazione pia di questa frase oppure accettare tutta la provocazione che contiene a livello economico. Il progresso di una nazione come la Spagna richiede un modello produttivo percorribile, un’educazione adeguata e un sistema tributario e fiscale sostenibile. A cui vanno aggiunti una struttura territoriale ragionevole, uno Stato al servizio del protagonismo sociale, grandi dosi di fiducia reciproca che ora non esiste e molte altre cose.
Però, siccome le soluzioni tecniche non sono sufficienti, in ognuna di queste cose è in gioco un determinato modo di affrontare la realtà. Ed è proprio a questo livello che conta più che mai l’esperienza cristiana come fattore di sviluppo. Perché il cristianesimo, quando resta fedele alla sua origine, presuppone soprattutto un metodo di conoscenza e una certa razionalità. Da quando Gesù ha cominciato a fare il cristianesimo in Galilea, il suo grande contributo è stato quello di insegnare e far vedere all’uomo che è libero, che non è alla mercè né delle circostanze, né del potere, che dipende dall’infinito Mistero di Dio.
Questo tipo di educazione c’entra quando parliamo di economia? Senza dubbio sì. La possibilità di vivere una relazione quotidiana con l’Infinito, a cui tende ogni uomo (dal più grande investigatore fino al mendicante che in un angolo con la mano tesa chiede la carità), è sempre stata fonte di libertà e creatività. E questo è ciò di cui abbiamo più bisogno in questo momento. Per non farsi condizionare dai vecchi schemi, per fare impresa senza paura di fallire, per essere realmente accompagnati quando si tratta di creare ricchezza, di accettare nuovi stili di vita, di non essere schiacciati dai sacrifici. È inoltre questa relazione che permette di riconoscere una delle categorie economiche più decisive: quella della gratuità.
Senza la coscienza che tutto è dato e che qualsiasi opera – che si tratti dell’educazione dei figli, della carriera professionale, di fare impresa o di risollevare un Paese – ha bisogno della gratuità, l’economia reale perde terreno. Ed è stata l’economia speculativa, che fugge da questa essenza gratuita che sostiene il mondo, quella che ci ha portato al disastro.