Alcune recenti notizie non lasciano ben pensare circa il futuro politico dell’Italia. Per esempio, il rischio-default della Sicilia e, più ancora, le dichiarazioni di chi ne è il responsabile, secondo cui la situazione sarebbe più che rosea, salvo un piccolo problema di liquidità (della serie: “Dammi due minutini che faccio un salto al bancomat”).

O, sempre per esempio, il clima di svagatezza e di disinteresse nel quale sta passando il cosiddetto semipresidenzialismo, che in altre stagioni avrebbe acceso polemiche feroci. Ascolto le dichiarazioni di sindaci di grandi città, soprattutto del Sud Italia, e l’impressione che in una grande parte del nostro paese nessuno abbia la minima idea di quello che sta succedendo in Italia si fa forte, insistente e anche un po’ angosciante.

Basta pensare che in certe regioni del Sud il numero dei dipendenti pubblici è diverse volte superiore a quello relativo alle regioni del Nord, e che in molte città e regioni chi regge il mercato del lavoro sono gli stessi sindaci e assessori, per comprendere il mio timore circa la situazione presente. In un paese, il nostro, che, da un certo parallelo in giù, vive di spesa pubblica, il rischio di una spaccatura politica definitiva si fa molto forte. In parole povere: rischiamo seriamente, per poterci mantenere entro parametri accettabili, di spezzarci in due. Un pezzo dentro (forse) e uno fuori (senza nessun forse). A rafforzare questo pensiero spiacevole (come il lettore avrà capito, non sono leghista, e amo Napoli e Palermo non meno di Milano o Venezia) c’è poi la considerazione di una progressiva perdita di centralità del ruolo di Roma nella vita del paese.

E’ una sensazione diffusa, ormai. Nonostante le molte, importanti decisioni prese in quella sede, e nonostante treni molto veloci, l’idea di un progressivo allontanamento delle sponde è più palpabile che mai. Come se le nostre città fossero sul punto di trasformarsi in altrettante città-stato abbastanza indifferenti le une al destino delle altre. Con una differenza, però: che con la perdita della coesione politica verrebbe meno anche quella coesione culturale che, viceversa, costituì il grande presupposto dell’unità politica: pensiamo a S. Francesco, Dante, Petrarca, Manzoni…

L’Italia unita iniziò pienamente il suo cammino storico nel 1870, con la conquista di Roma. I diversi interessi, le diverse mentalità, le diverse storie dei tanti pezzetti che componevano quell’entità – l’Italia, che per secoli era stata solo linguistica e culturale – confluirono a Roma non solo per il fervore degli ideali patriottici, ma perché l’istituzione di un centro tanto prestigioso conveniva a tutti coloro che, su un territorio così spezzettato, così accidentato, così allungato, intendevano mantenere le proprie posizioni: accettando di far parte di un gioco più grande, ne avrebbero tratti benefici più grandi.

L’enorme successo de Il Gattopardo rubricò, a mio parere ingiustamente, questo atteggiamento sotto la formula “cambiare tutto perché non cambi niente”. Non è così: il divorzio tra l’ideale da un lato e la prassi dall’altro è fittizio e tendenzioso. Per dare un destino alle parole di Dante e di Manzoni (interpreti come nessun altro della vita e degli ideali di tutto un popolo) era necessario far collimare gli interessi concreti di ciascuno con il grande Interesse comune, ossia fare dell’Italia qualcosa di interessante non solo per i cattedratici o per i massoni ma per tutti. Compresi coloro che, di fatto, magari non sempre magnificamente, reggevano le sorti di questa o quella porzione di territorio. 

Oggi siamo sul punto di una scomparsa che qualcuno vede già come inevitabile. Attenzione però: perdere il senso della nostra storia significherebbe l’inizio di una confusione senza fine. Rischieremmo di non comprendere più nulla del nostro passato. Dalla mia finestra vedo alcuni ragazzi giocare a basket in un campetto recintato posto al centro del viale. Tutti i loro movimenti hanno un obiettivo: quello di gettare la palla dentro il cerchio del canestro. Già, l’obiettivo: qui sta il punto. 

Alla fine di tante illusioni (per esempio quella secondo cui l’importante è diventare ricchi, o quella secondo cui si può sostituire l’unità storica e culturale d’Europa con un patto monetario) possiamo comprendere meglio che non sarà Monti a darci questi obiettivi, o a darli ai giovani. E’ un problema totalmente personale. Ciascuno di noi, oggi, a Nord come a Sud, è chiamato a domandarsi daccapo qual è il proprio obiettivo, quello vero, quello in grado di farci affrontare senza paura gli inevitabili sacrifici che ci aspettano.