«Se Giuseppe non si trovava in Egitto al tempo della grande carestia, la discendenza di Giacobbe si sarebbe estinta. Allora non fu un male quando i fratelli, per invidia, lo vendettero». Mario (nome di fantasia), dieci anni, trae questa conclusione dopo aver ascoltato la storia di Giuseppe e i suoi fratelli che suor Maria Grazia ha raccontato. Siamo nel parco Nazionale d’Abruzzo, durante quattro giorni di vacanza organizzata per cinquantacinque bambini delle elementari alla fine dell’anno sociale delle “Stelle di san Lorenzo”, gruppo della Parrocchia della Navicella di Roma che ho l’incarico di seguire.

«Non è proprio così, Mario», lo correggo. «Bisogna distinguere fra il male che fanno gli uomini, che tutti facciamo, che è sempre da condannare, per cui bisogna chiedere perdono; e la storia di bene che Dio realizza, nonostante il male degli uomini, quasi attraverso il loro male». La distinzione lo convince. Anche gli altri cinquantaquattro, che partecipano a questo breve momento di dialogo di fine vacanza, sembrano intuire la differenza dei piani.

Nel prosieguo della conversazione, Laura (nome di fantasia), nove anni, confessa: «Anche io, come i fratelli di Giuseppe, ho provato invidia quando è nato il mio fratellino, perché mamma prestava a lui tutte le attenzioni. L’ho anche picchiato quando era nella culla. Poi mi sono rassegnata alla sua presenza». Il coraggio di Laura rompe gli indugi di molti. Tutti quelli che hanno fratelli più piccoli si erano immedesimati con Ruben, Giuda, Simeone e tutti i fratelli più grandi di Giuseppe.

Che sollievo sapere che per tutti i “primi figli” c’è questo dramma da attraversare! E che liberazione poter confessare questa debolezza, poterne parlare insieme, scoprire che in fondo è più bello avere fratelli che rimanere soli, che l’amore della mamma e del papà sono unici per ciascuno. Gesù stesso ama tutti in modo particolare, unico, tanto che ha dato la sua vita per ognuno di noi.

Il tema del peccato come ferita dell’amore era emerso già durante l’anno, tra i bambini che abbiamo preparato per le prime confessioni e le prime comunioni. Per loro i peccati più gravi sono pensieri, parole, opere e omissioni che “sporcano” i rapporti vitali, quelli con i genitori e con i fratelli. Lì il dolore si fa sentire più in profondità: si avverte di aver fatto qualcosa d’irreparabile che ha bisogno del perdono, quello vero. Qualcosa che mendica la benevolenza e la misericordia dell’altro.

È sorprendente che per i bambini, quando cominciano ad avere coscienza del peccato, non è mai scontato neanche il perdono dei genitori. È sempre una meraviglia, una gratuità non dovuta, che dà vita. Tanto più che per loro è molto chiaro che, per riparare a un danno fatto, c’è bisogno di una qualche “espiazione”: ma questa, normalmente, come per miracolo, viene loro risparmiata da un nuovo abbraccio della madre.

Attraverso queste esperienze tutto diventa potenzialmente un miracolo, un riflesso della bontà di Dio, che ai piccoli si manifesta in modo più immediato: anche nella creazione e nella comunità di cui, timidamente ma profondamente, hanno già coscienza di far parte.

Durante la vacanza, un giorno, ci siamo arrischiati a portarli in quota tutti, anche i più piccolini di sei anni. Una passeggiata di quasi tre ore e più di 500 metri di dislivello. Arrivati su, la fatica che aveva sfinito molti è passata in un attimo. Guardando le cime che circondavano gran parte dell’orizzonte, il silenzio e lo stupore invadevano l’anima di questi piccoli, che nel loro cuore, forse senza esserne coscienti, lodavano Dio.

Lo stesso silenzio è calato all’improvviso quando abbiamo iniziato la celebrazione della messa in albergo. Durante l’anno abbiamo spiegato le parti fondamentali della messa, senza mai insistere troppo sul suo valore. Eppure essi sapevano che quel momento era proprio per loro. E noi adulti lasciavamo che ancora una volta Cristo stringesse i suoi piccoli a sé.