Con una cerimonia barocca che ha abbracciato quarant’anni di cultura pop britannica, da David Bowie a Kate Moss, se n’è andata la trentesima Olimpiade dell’era moderna. Gli americani hanno rintuzzato l’assalto della Cina nel medagliere, gli inglesi (anzi i britannici), come da tradizione per chi gioca in casa, hanno fatto incetta di medaglie (ma forse gliene manca qualcuna), l’Italia, come dice il presidente uscente del Coni Gianni Petrucci, è rimasta nel G8 dello sport, con 28 medaglie, una in più di Pechino (sarebbero pari, veramente, ma ci hanno tolto l’argento del ciclista Rebellin, positivo all’antidoping).
È finita l’Olimpiade più posticcia dopo Atlanta 1996, tra quelle a cui ho partecipato (nove). Nessuno degli impianti in cui si sono svolti i Giochi resterà così. Alla piscina del nuoto smonteranno le tribune, quella della pallanuoto neanche è una piscina vera, ma una creazione del genio italiano (Myrtha Pools): sono piscine smontabili. Lo stadio della Bmx e quello dell’hockey prato sono in ferrotubi, perfino l’Olimpico, se uno se lo compra, può essere rimpicciolito e adattato alle esigenze. Il resto dei posti dove si è combattuto, corso, nuotato, sparato tornerà ai precedenti incarichi: fiere, laghetti con le papere, viale di accesso a Buckingham Palace.
È stata l’Olimpiade in cui si è camminato di più, cambiato più mezzi, percorso più distanze. È stata l’Olimpiade di una città spezzata in due. La parte Est, militarizzata dai Giochi, era popolata solo da coloro che erano venuti a Londra per l’Olimpiade. Quella a Ovest da tutti gli altri, dai turisti, dagli studenti in full immersion o in fuga da casa, tutti quelli a cui dell’Olimpiade non fregava nulla. Non c’è stato traffico perché le strade degli uni e degli altri raramente si sono incrociate. La differenza era stordente: superavi il muro virtuale ed era un’altra città. Si è mangiato male. Specialmente chi doveva lavorare. Ricordo con nostalgia la fantasmagorica mensa di Sydney.
Non è stata l’Olimpiade di Londra, ma di Stratford, è stata l’Olimpiade del centro commerciale, il Westfield Shopping Centre, che stava, veramente, al centro di tutto: stazioni (tre), Parco Olimpico con gli impianti, Villaggio Olimpico con gli atleti. Sembrava fatto in modo che tutti convergessero lì. E questo accadeva. Ci incontravi tutti, manco fosse lo struscio quotidiano in Via Condotti o in Via Montenapoleone. E tutti spendevano. E il tassametro girava.
Nel Parco Olimpico non potevi introdurre neanche un contenitore di liquidi. Sicurezza? Ma va, era perché così eri costretto ad acquistare tutto lì. Per andare a vedere l’Olimpiade non potevi usare che i mezzi o i taxi (niente auto private), ma solo quelli di una società convenzionata. Con gli altri eri costretto a farti un chilometro a piedi. È stata l’Olimpiade della coda perché gli inglesi, dopo la Regina e uova/bacon, è la cosa che amano di più. Se la inventano anche quando non serve.
Insomma, diciamolo, non è stata una grande Olimpiade. Del resto nessun Paese occidentale può/potrà mai più organizzare un’Olimpiade come quella cinese o comunque di un Paese che non ha il problema del costo della manodopera, dei verdi, dei no global e dei sindacati. Amen.
Non è stata una grande Olimpiade. Se non fosse. Se non fosse per l’unica cosa che, alla fine conta. Lo sport. E qui si è visto il solito più grande spettacolo prima, durante e dopo il weekend. Bolt, Phelps, Mo Farah, Jessica Rossi che spara come John Wayne, il Settebello, i tuffatori cinesi, i ladrocini del pugilato, il tennis a Wimbledon, Messico e nuvole (sul Brasile del calcio). Uno spettacolo senza tempo.
Cosa mi ricorderò io? La semifinale della pallanuoto con la Serbia e gli indimenticabili occhi blu di Asa, una giornalista svedese che seguiva la pallamano. La Svezia ha perso in finale con la Francia. Io seguivo la pallanuoto e abbiamo perso con la Croazia. Peccato, ma eravamo tutti e due contenti. Ma sì, l’importante è partecipare.