Il Meeting come marchio globale? Prendo a prestito l’espressione usata qualche anno fa da un numero uno mondiale della pubblicità e dell’immagine, Martin Sorrell, capitato a Rimini quasi per caso e rimasto sbalordito da quel che aveva visto e vissuto in poche ore. L’idea del marchio globale non si attaglia del tutto al Meeting ma certamente propone una lettura e una prospettiva di grande interesse. Da un lato coglie l’universalità dell’evento, presente fin dal 1980; dall’altro collega idealmente i tanti “momenti Meeting” che continuamente accadono nel mondo da qualche anno a questa parte: eventi all’Onu e New York e all’Unesco a Parigi, la serie di presentazioni in Brasile, lo straordinario incontro itinerante del Giappone, le recenti manifestazioni all’ambasciata italiana a Beirut e in Serbia, la mostre che girano l’Europa, il prossimo miracoloso Meeting del Cairo a novembre, per non parlare degli incontri “cugini” come il New York Encounter ed Encuentro Madrid. Ecco perciò l’avvincente esperienza di questa stagione: il Meeting che continua nel tempo, il Meeting che accade altrove. Bene lo racconteranno gli amici egiziani forsennatamente al lavoro per il prossimo Meeting Cairo, intitolato “Educazione alla libertà”.
A Rimini interverranno a più riprese in incontri sulla giustizia, l’Islam, la politica, il dialogo, per arrivare insieme alla conclusione di sabato, che getterà un ponte con il “loro” Meeting di novembre che piomba nel contesto nazionale più delicato e complesso: la creazione di un nuovo Egitto, un momento storico in cui nulla è scontato e nulla è semplice. Anche noi potremo dunque percepire la temerarietà della sfida lanciata da Wael Farouq e dagli amici dell’altra riva del Mediterraneo. E’ proprio qui, attorno a questo “lago dei monoteismi” (secondo una definizione del cardinale Tauran), che si sta giocando una partita decisiva per le sorti dell’uomo. E’ una costante storica: quel che accade in questa parte del mondo ha un peso e una portata che valgono per tutto il pianeta.
Se dunque al Meeting si parlerà molto di libertà religiosa è perché in questi anni è diventato “il” tema cruciale. Esso svela fino in fondo per quale idea di uomo, per quale idea di dignità e libertà umana ci si impegna, si combatte, si fa politica e si prendono decisioni. C’è chi muore per difenderla e c’è chi la demolisce per decreto; c’è chi la uccide in nome di Dio (come ha ricordato con parole tremende Benedetto XVI nell’ultimo discorso dell’incontro di Assisi) e chi in nome dell’eguaglianza tra gli uomini (per i vescovi americani c’è un grave problema di libertà religiosa persino negli Stati Uniti). Non era immaginabile che dopo il crollo del comunismo si sarebbe aperta un’altra cruenta battaglia per la libertà religiosa ma questi sono gli scherzi della storia. A Rimini ascolteremo testimonianze drammatiche (Nigeria, Cipro) e approfondimenti di pensiero (lunedì 20 alle 11,15 e venerdi 24 alle ore 17), perché la libertà religiosa è appunto una questione di concezione che riguarda primi tra tutti cristianesimo, islam e agnosticismo occidentale. 



La disputa tra queste culture ha nel Mediterraneo il suo epicentro: se la libertà religiosa verrà salvata qui lo sarà in tutto il mondo. Lo dimostra un paese mediterraneo per eccellenza, il Libano, che porterà a Rimini una delle esperienze più interessanti umanamente e rilevanti artisticamente: Caracalla Dance Theatre. Il lavoro sull’arte e sulla bellezza che è il cuore di questa compagnia ha consentito di resistere alla distruzione negli anni della guerra civile e di fiorire in modo spettacolare nell’epoca della pace. Riscoprire il potere salvifico della bellezza è forse quel che ci vorrebbe per una Europa stanca e sfibrata, che stenta a riconoscere se stessa (“Una nessuna centomila” è il titolo dell’incontro del 22 agosto) e della quale però noi popoli europei continuiamo ad avere bisogno. L’equivoco è che pensiamo di averne bisogno per salvare gli spread e le banche, mentre questo è solo la conseguenza della risposta alla domanda: perché siamo insieme, cosa abbiamo in comune? Il preambolo del progetto di costituzione europea poi abortito aveva visto giusto: definiva l’Europa “spazio privilegiato della speranza umana”. Se non è solo retorica, è ora di riaprire la mente europea a cose così grandi.

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