Stato di burocrazia

La macchina amministrativa dello Stato è ormai caduta in un abisso di inefficienza e di  ossessione burocratica. L'editoriale di ROBI RONZA

Il peggio della burocrazia ministeriale si mette al sicuro dal… rischio di una vera riforma della macchina centrale dello Stato, responsabile della massima parte della spesa pubblica improduttiva, andando all’attacco delle Province e dei piccoli Comuni, le cui eventuali spese improduttive sono comunque bruscolini rispetto a quelle del proverbiale Palazzo romano. Roma, insomma, tenta ancora una volta di scaricare su altri la riforma che dovrebbe innanzitutto fare su di sé.



È questo in sostanza il senso della cavalcata contro le autonomie locali avviata lo scorso 20 luglio dal governo Monti – sempre più succube di tale Palazzo – nel quadro di un decreto legge cui martedì scorso i senatori hanno detto “sì”, ma con modifiche. Nello stesso infelice spirito il governo sta penalizzando le autonomie sociali, tra cui in primis le scuole non statali.



Non c’è dubbio che il sistema delle province sia da rivedere, ma ciò non toglie che in linea generale tra il Comune e la Regione (salvo il caso delle Regioni più piccole) un ambito di governo intermedio di area vasta è necessario. Al riguardo una riforma è dunque opportuna, ma per farla seriamente si devono evitare iniziative estemporanee; e in primo luogo non dare per scontato il modello, sostanzialmente prefettizio, delle province istituite alla sua nascita nello Stato italiano sul modello dei dipartimenti francesi.

Occorrono studi adeguati e un vasto e approfondito dibattito politico-culturale alla scala nazionale. La prima scelta seria sarebbe quella di partire dalla storia, e quindi tra l’altro dall’organizzazione interna degli Stati pre-unitari, che spesso rifletteva identità ed esperienze di governo italiane ben più antiche e ben più radicate di quella versione provinciale dello Stato francese che era il Regno Sardo. E non pretendere di imporre a priori criteri tanto astratti quanto rudimentali nella loro incompletezza come la superficie non inferiore a 3500 chilometri quadri e la popolazione non inferiore ai 350 mila abitanti. E la natura del territorio di Belluno o di Sondrio, e il peso dell’economia di Varese, e il patrimonio monumentale e la fama planetaria di Siena o di Mantova?



Occorre insomma un serio lavoro preparatorio solo al termine del quale avrebbe senso porre mano – dopo una conseguente riforma costituzionale – a leggi e decreti. A nostro avviso la cosa più ragionevole sarebbe quella di giungere infine ad ambiti di area vasta di diverso tipo secondo le diverse situazioni: città metropolitane, città non incluse in altre circoscrizioni, città con territorio, circoscrizioni (circoli, circondari) di piccoli e medi comuni non urbani, comunità di valle, arcipelaghi e così via. Qualcosa di simile a ciò che non a caso accade in Germania, Stato coetaneo di quello italiano e giunto anch’esso alle attuali dimensioni “nazionali” dopo secoli di (positive) esperienze politiche di altra matrice.

L’attuale governo invece che cosa fa? Da un lato squilla con piglio napoleonico la tromba del centralismo “illuminato”, e poi passa la patata bollente ai neonati Consigli delle Autonomie locali che infine non decideranno nulla. La sbandierata abolizione delle Province (poi frettolosamente divenuta “riordino” quando qualche presunto esperto si è infine accorto che essendo organi costituzionali non le si possono abolire) appare insomma destinata a trasformarsi in un’altra delle gigantesche bolle di sapone che costellano il cammino di questo governo.

Da un governo “tecnico” destinato a durare un anno e mezzo non si può certo pretendere il compimento di un’opera di queste dimensioni, però il suo inizio sì. Anche una lunga marcia comincia con un primo passo, come diceva quel tale. Salvo la riforma delle pensioni, sinora invece abbiamo visto soltanto o dei passi indietro o dei saltelli sul posto (per non parlare delle tasse).

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