Siamo proprio certi che la democrazia in cui viviamo sia una conquista definitiva? Questa certezza è stata incrollabile per le generazioni successive a quelle che hanno vissuto la follia dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale e che avevano urlato al mondo la frase impressa nel marmo nero del campo di concentramento di Dachau: “Never again!”, “Mai più!”. Altrettanto è accaduto, di recente, quando abbiamo assistito al crollo del Muro nel 1989.



Anche in quell’occasione la “democrazia” è stata l’unica strada possibile per la rinascita dopo la dittatura sovietica; unica perché definitiva, nel senso che la forma democratica appariva il punto di approdo finale di una transizione durata secoli e, sebbene imperfetta, in ogni caso migliore degli altri sistemi (secondo il famoso detto di Churchill).



Certo, la democrazia non è perfetta quanto è vero che la maggioranza non ha sempre ragione; ma per correggere questa imperfezione è stato inventato il costituzionalismo “rigido”. Sui diritti non si vota, i valori di fondo non si cambiano a maggioranza; le costituzioni del secondo dopoguerra sono servite (anche) a questo. Con questa rilevante correzione, la democrazia, pur imperfetta, ha vinto. Anche la Chiesa dopo qualche iniziale incertezza si è schierata a favore della democrazia “senza se e senza ma”; Sturzo sin dai primi del 900 ha compreso e dichiarato in maniera chiarissima che se i cattolici italiani volevano competere per il governo del Paese, avrebbero dovuto combattere sul piano delle ragioni comprensibili a tutti, facendosi preferire per la concretezza e la validità delle loro proposte, non per il dictat dei preti e, dunque, conquistando “democraticamente” il potere. Altrettanto – con qualche riluttanza in più – hanno fatto i comunisti di Togliatti, cinquant’anni dopo, con la Costituzione: lasciata da parte la guerra civile sono entrati in Parlamento, democraticamente eletti. Accettando di stare all’opposizione per oltre quarant’anni, prima di entrare formalmente in un governo nazionale.



La storia recente dell’Italia è un grande “caso di successo” democratico, in cui partiti che volevano eliminarsi fisicamente hanno imparato a convivere e lo stesso può dirsi per tanti stati Europei. E così, per osmosi, il metodo democratico ha trionfato anche a livello sovranazionale. Non si erano mai visti Stati, che avevano appena finito una guerra sanguinosissima, sedersi allo stesso tavolo, non per firmare un armistizio umiliante, ma per siglare un trattato tra pari; eppure questo è accaduto nel ’51 tra i vincitori (Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi) e i vinti (Germania e Italia) e così è nata l’Europa unita. Democrazia e libertà economica: questo era il binomio vincente. Una sorta di presupposto implicito: stati democratici e stati con economie di mercato non si fanno la guerra. O per meglio dire: le ultime guerre sono sempre venute o da stati non democratici o da stati con economie non di mercato (o spesso da tutt’e due).

Questa incrollabile certezza ha costituito il comodo giaciglio nel quale i nostri paesi hanno dormito sonni tranquilli negli ultimi cinquant’anni. Ma oggi è ancora così? The Economist pubblica ogni anno il Democracy Index: un bollettino sullo stato di salute della democrazia nel mondo. Il Rapporto 2011 è intitolato Democracy under stress – la “democrazia è sotto stress” – ed in effetti i dati sono preoccupanti.

Secondo il Rapporto nel 2011 nel mondo solo 25 stati possono essere definiti democrazie piene, il che sta a dire che al giorno d’oggi solo l’11% della popolazione del pianeta vive in democrazie degne di questo nome. Ben 53 sono le democrazie imperfette (e tra queste, manco a dirlo, l’Italia); ma il dato più impressionante è che nel 2011 oltre la metà degli abitanti del mondo vive in stati non democratici (il 14% in regimi ibridi e il 37,6% in stati autoritari). La democrazia perfetta resta, dunque, molto più un’utopia che una realizzazione. O, detto altrimenti, la stragrande maggioranza delle democrazie che funzionano, in realtà, sono imperfette. Ma questo lo sapevamo già.

Il dato che più impressiona riguarda il nostro vecchio continente. L’Europa continua ad essere il continente più democratico (ben 6 delle prime 10 democrazie appartengono all’Europa occidentale), ma, attenzione, la “qualità” democratica dei paesi europei sta crollando: se paragoniamo i dati 2011 a quelli del 2008 ci accorgiamo che ben 15 paesi europei su 21 sono arretrati nella loro posizione nell’Indice: quattro, in particolare (Francia, Italia, Grecia e Portogallo), sono addirittura retrocessi dalla categoria democrazie “piene” a quella di democrazie “imperfette”. E neanche i paesi europei rimasti in “serie A” possono cantare vittoria se è vero che la Germania (n. 14) ha un tasso record di astensionismo alle elezioni ed “il livello di partecipazione politica nel Regno Unito (n. 18) è tra i peggiori dei paesi sviluppati”.

L’altro dato cruciale riguarda il ruolo dello sviluppo economico. Fino ad un decennio fa sviluppo economico e democrazia sembravano andare a braccetto; ma oggi i paesi più emergenti sul piano economico o non sono del tutto democrazie (Cina, Russia) ovvero sono sistemi molto “ibridi” (India, Brasile).

D’altra parte, sulle nostre “vecchie” democrazie si è abbattuta come un tornado la crisi finanziaria globale. Ed emerge, così, un curioso paradosso: quella stessa condizione di crisi economica che in alcune aree del mondo – pensiamo alla “primavera araba” – è il principale propellente della domanda di democrazia, in altri – ad esempio l’Europa – rappresenta la causa che ne sta minando le fondamenta (l’Italia e la Grecia sono casi clamorosi in cui “drammaticamente” si è passato da governi politici eletti dal popolo a governi di “tecnocrati”).

Oggi, dunque, l’ideale democratico è sotto scacco. L’impressione è di essere di fronte a democrazie “sazie”, ormai appagate e senza più spinta ideale. Quello che più manca alle nostre democrazie “sazie” è proprio quella “fame” di giustizia senza della quale non si percepisce perché è così importante la libertà. Desiderio di partecipazione e voglia di crescita sono la base di una democrazia vitale ed è proprio ciò che, sebbene in maniera ancora confusa e dagli esiti incerti, vediamo accendere i cuori di chi vive nella sponda sud del Mediterraneo.

Per l’occidente oggi, la mera riduzione della democrazia a procedura, invece, sembra l’ultima spiaggia, ma in realtà è solo l’approdo ad un’isola deserta. La speranza, al contrario, è nella ripresa di una idea sostanziale di democrazia, intesa come “domanda di giustizia”, ovverosia, per riprendere parole di don Giussani del 1964, oggi straordinariamente attuali, “come esigenza di rapporti esatti, giusti fra persone e gruppi. (…) Punto di partenza per una vera democrazia è l’esigenza naturale umana che la convivenza aiuti l’affermazione della persona, che i rapporti «sociali» non ostacolino la personalità nella sua crescita. Nel suo spirito la democrazia non è innanzitutto una tecnica sociale, un determinato meccanismo di rapporti esterni; la tentazione è quella di ridurre la convivenza democratica a puro fatto di ordine esteriore o di maniera. In tale caso il rispetto per l’altro tende a coincidere con una fondamentale indifferenza per lui. Lo spirito di una autentica democrazia invece mobilita l’atteggiamento di ognuno in un rispetto attivo verso l’altro, in una corrispondenza che tende ad affermare l’altro nei suoi valori e nella sua libertà. Si potrebbe chiamare «dialogo» questo modo di rapporto tra gli uomini che la democrazia tende a instaurare”.

Al centro della democrazia è la persona e la sua esigenza insopprimibile di giustizia. Tale esigenza è il medesimo anelito all’infinito che segna in modo indelebile la nostra natura, come spiega il titolo del Meeting di quest’anno. Senza qualcosa o qualcuno in grado di far rinascere questo protagonista, la democrazia, oggi, appare seriamente a rischio.