Tratto da una storia vera, il film “The Way Back” dell’australiano Peter Weir narra di un pazzesco cammino. In senso letterale: nel 1939 sei prigionieri del Gulag siberiano riescono a fuggire. A piedi. Si inoltrano nelle foreste coperte dal gelo, arrancano per monti e per valli. Mentre stai seduto in platea leggi con la mente certe pagine di Herling o di Salamov, gli scrittori che hanno scolpito per sempre l’orrore fisico dei campi staliniani. Quel freddo che non ti abbandona mai, quelle scarpe lacere, quei pezzi di pane ammuffito. La sensazione del dissolvimento dell’uomo, la violenza onnipresente.
Ma ora i sei avanzano liberi nel mondo pressoché sconosciuto, si orientano con il sole, quando c’è, e per il resto girano a vuoto, nascosti. Piangono, urlano, cercano. Sempre a piedi. Lentamente la neve cede all’erba, l’erba ai sassi, i sassi al deserto. Hanno una meta, ma si rivela sbagliata. E quindi occorre ancora camminare. Piedi sanguinanti, corpi esangui. Qualcuno muore, qualcun altro vorrebbe morire. Solo uno non cede. E della sua certezza si abbeverano gli altri per poter proseguire. È innocente come loro, e come loro è attanagliato da una questione morale: colpe da perdonare e da farsi perdonare.
Sono passati giorni, settimane, mesi. Insieme a loro perdi il senso del tempo, ma ogni giorno c’è il motivo per tornare a camminare. Non si dirà qui la fine del film, ma il suo bello: l’impressionante realismo di una marcia in quell’infinito che è dentro di sè (non puoi camminare sulla terra se non cammini “in” te) e in quell’infinito che ci circonda, dove anche la natura più ostile offre sempre un appiglio per continuare: legno per scaldarsi, pozze d’acqua per dissetarsi (occorre però saper cercare). Così, uno dopo l’altro cadono i confini, anche quello più duro e incomprensibile: la morte.
“The Way Back” è stato proiettato al Meeting e abbiamo improvvisamente percepito che il Meeting non è altro che un’altra faccia del medesimo pazzesco cammino. Un cammino che ha percorso migliaia di chilometri, fino al Giappone e al Canada, all’Argentina e all’Egitto, fino agli spazi siderali e agli inferni terrestri; e che si è spinto fino ai limiti conosciuti della conoscenza scientifica e oltre il limite della malattia, fino all’alba dell’homo religiosus e alle profondità del genio artistico. Cammino pazzesco, esposto all’incredulità e all’ironia (chiunque avrebbe potuto scappare, ma pochi hanno osato), alla fragilità e al tradimento (le gambe cedevano e la mente si offuscava).
Nel mondo di oggi sembra che ci voglia un po’ di pazzia per un’opera così razionale e ragionevole come quella di inoltrarsi nel rapporto con l’infinito. Ma è la cosa che ogni uomo appena un po’ sincero con se stesso sente come la più importante e decisiva di tutte. Nessun Gulag può impedirlo.