Dal febbraio 2011, ossia ormai da un anno e mezzo, la Siria è squassata da una guerra civile senza alcuna ragionevole via d’uscita che provoca sempre più lacrime e sangue, nonché un sempre più drammatico e disastroso marasma economico. Un Assad minacciato di venire arrestato e trascinato davanti a una corte penale internazionale e un esercito minacciato di sterminio non hanno altra alternativa se non quella di sparare fin all’ultimo colpo; e tutta la forza e l’appoggio internazionale (dalla Russia e dalla Cina) che gli basta per continuare a farlo sine die.  Le bande di insorti, di disertori o anche semplicemente di banditi, che l’Occidente sta irresponsabilmente sostenendo e rifornendo di armi, non sono affatto in grado di reggere lo scontro con un esercito regolare. Aree rurali e soprattutto quartieri urbani diventano così campi di disordinati scontri, scaramucce e rastrellamenti di cui fanno le spese soprattutto civili inermi presi in mezzo fra reparti dell’esercito regolare e bande di insorti ugualmente inclini nel furore della battaglia a saccheggi, violenze, massacri e atrocità.  Saccheggi, massacri, violenze e atrocità accompagnano qualsiasi guerra; e il conflitto in corso in Siria non fa eccezione. Uno specifico impegno dei comandanti militari può ridurli al minimo (e non si ha notizia che ciò accada in Siria né da una parte né dall’altra) o viceversa lasciarli dilagare. Ciò non è poco, ma è l’unica differenza. Pertanto pretendere di stabilire chi siano nel caso siriano i buoni e i cattivi sulla base del comportamento delle forze sul campo è una pura perdita di tempo. E pretendere  che gli insorti siano dei cavalieri senza macchia e senza paura è una pura e semplice ipocrisia.

Stando così le cose, rifornire sottobanco di armi le bande di insorti improvvisati, molti dei quali sono anche semplicemente dei malviventi e dei banditi che hanno colto al volo l’occasione per … mettersi in grande, è una politica irresponsabile. E’ tale per i danni immediati che provoca e lo è altrettanto per le distorsioni di lungo periodo che innesca dentro il campo dell’opposizione al regime indebolendone la componente politica a vantaggio di quella militare (per natura sua in situazioni del genere nient’affatto immune, come si diceva, da infiltrazioni criminali e banditesche). 

Regimi come quello di Bashar al Assad hanno fatto il loro tempo, ma la soluzione del problema deve  essere politica, e non militare.  Ancora una volta  non rendendosene conto gli Stati Uniti stanno  muovendosi a tutta forza nella direzione di una replica del tragico pasticcio che combinarono in Iraq. Si può capire che il Nord Europa li segua passivamente, sempre meno capace come è di comprendere che cosa accade e soprattutto che cosa non solo in male ma anche in bene può accadere nel Mediterraneo. Sconforta invece che sulla stessa strada si sia messa anche l’Italia. 

Se c’è un Paese con le carte in regola per tentare di aiutare la Siria a una transizione non catastrofica da Assad al dopo-Assad, con le necessarie garanzie per tutti (compreso lo stesso Assad), questo è l’Italia. Invece tanto per dirne una per fare i primi della classe abbiamo chiuso non solo l’ambasciata a Damasco ma anche l’Istituto Italiano di Cultura. E tremiamo ufficialmente per la sorte delle aree archeologiche affidate alle nostre missioni avendo costretto i nostri archeologi a lasciare la Siria e avendo reso sempre più arduo e tra poco impossibile il pagamento dei custodi di tali aree. Sarebbe ora che l’Italia la smettesse di fare in materia la parte del vagone di coda assumendosi finalmente la responsabilità di guidare quel che resta dell’Unione Europea verso una politica mediterranea appunto mediterranea, non atlantica.