È sempre difficile, dopo un grande trauma, stabilire quando è il momento giusto per cominciare a dimenticare. L’America ha deciso che il 2012 è l’anno giusto per provare ad archiviare il 2001 e affidarlo ai libri di Storia.
L’undicesimo anniversario di quello che negli Stati Uniti è semplicemente 9/11, nine-eleven, un giorno che ha segnato il Paese per sempre, segna l’inizio della svolta. La paura è metabolizzata, l’emergenza è finita, il terrorismo sembra una minaccia lontana e nuovi grattacieli si elevano dove un tempo sorgevano le Torri Gemelle. E allora “goodbye, Ground Zero”, l’America oggi ha altro per la testa. L’anno scorso, complici la ricorrenza tonda del decimo anniversario e la fresca uccisione di Osama bin Laden, 9/11 era stato vissuto con intensità nonostante le preoccupazioni per la crisi economica, ormai unico catalizzatore dell’attenzione di media e politica. Stavolta è diverso.
Il segnale più chiaro lo hanno dato le Conventions appena concluse, che hanno sancito l’incoronazione di Mitt Romney come sfidante per la Casa Bianca e del presidente Barack Obama come candidato alla successione di se stesso. A Tampa, in Florida, dove i repubblicani si sono riuniti per la loro assise, si è sentito parlare pochissimo di guerra al terrorismo, Al Qaeda o 11 settembre, per anni i temi forti dell’amministrazione Bush e ancora nel 2008 argomenti centrali e imprescindibili nella sfida tra Obama e John McCain. Stavolta a parlarne sono stati solo due superstiti di lusso dell’era bushiana: l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice, che ha pronunciato quello che probabilmente resta il miglior discorso di Tampa, e l’ex governatore della Florida Jeb Bush, intento a difendere e ricostruire l’immagine politica del fratello ex presidente. Da Romney o dal suo vice Paul Ryan, su questo terreno, è arrivato poco o niente: il candidato presidente è riuscito nel suo intervento a non parlare di Afghanistan, una “guerra dei 10 anni” che sta segnando un’intera generazione di americani.
Poco diverso lo scenario a Charlotte, sede della Convention democratica. Al Qaeda deve sembrare una cosa del passato agli autori dei discorsi politici democratici e repubblicani, tanto che anche all’assise di Obama il compito di parlarne più a lungo è spettato a un veterano, l’ex candidato alla Casa Bianca John Kerry. La First Lady Michelle è stata brava a rivolgersi alle famiglie dei soldati e dei reduci e lo stesso presidente non ha mancato di inserire qualche frase da “comandante in capo” nel discorso finale. Ma è stato chiaro a tutti che, rispetto all’economia e alla disoccupazione, si trattava di un tema minore nella campagna elettorale, un po’ come la tutela dell’ambiente o i matrimoni gay. Niente di lontanamente paragonabile alle Conventions del 2004 e 2008, con le loro coreografie di militari, pompieri, poliziotti ed eroi di Iraq e Afghanistan.
Che cosa ci dice dunque dell’America questo primo anniversario sotto tono? Molte cose. In primo luogo, gli Usa si stanno concedendo il lusso di cominciare a dimenticare (o di pensare ad altro, che è poi la stessa cosa), perché la guerra ad Al Qaeda l’hanno sostanzialmente vinta.
Nessuno alla Casa Bianca o al Pentagono sarà mai pazzo al punto di annunciarlo pubblicamente, per il timore di venire smentito il giorno dopo da un attentato, ma la rete di Osama bin Laden è oggi smantellata e la minaccia di una catastrofe come l’11 settembre è ora più lontana di quanto non lo sia mai stata in questi 11 anni.
Al Qaeda sopravvive come entità che dà un nome e una dottrina a movimenti terroristici diversi, ma non è quella pericolosissima centrale di comando che era nel decennio precedente. Merito in buona parte dell’amministrazione Obama, durissima nel colpire i santuari del terrore (i droni-killer sono più attivi che mai in Pakistan o Yemen), efficiente nel gestire l’apparato d’intelligence e pragmatica quanto basta per capire che la prigione di Guantanamo non si poteva semplicemente smantellare, perché i suoi detenuti sono tra gli uomini più pericolosi al mondo. Ma merito anche – e gli storici cominciano a riconoscerlo – di quanto ha fatto George W. Bush negli otto anni precedenti, ponendo le basi per il blitz di Abbottabad ed evitando nello stesso tempo agli americani di dover subire un nuovo attacco come quello di 11 anni fa.
Ma la voglia di dimenticare l’anniversario ci dice anche altro. L’America è esausta, i suoi cittadini sono provati da una crisi che si protrae da troppo tempo e vivono la disillusione di scoprire che non può farci molto neppure un presidente eletto a suon di “Yes, We Can” e “Change”. È possibile (anzi, probabile) che a quel presidente offrano la chance di un secondo mandato, soprattutto per mancanza di un’alternativa convincente. Ma gli americani stanno tornando a essere isolazionisti. L’Afghanistan è lontano e non c’entra niente con i problemi del mutuo da pagare e del lavoro che non si trova. L’Iraq è dimenticato. “I want to stay in my backyard” è la nuova filosofia, il cortile degli altri non interessa più.
È un fenomeno che dilaga tra i democratici e sembra emergere con forza anche tra i repubblicani, dopo aver cavalcato per anni il tema della “lunga guerra” al terrorismo globale. David Brooks, il columnist conservatore del New York Times, probabilmente il miglior commentatore americano, li ha rimproverati dopo Tampa per aver dato vita a una convention in cui dominava la parola “io”. L’attacco a Obama per la sua riforma sanitaria e per le altre scelte che rafforzano il governo di Washington, si sta tramutando in lode per l’egoismo. Il self-made-man della generazione dei Tea Party non è il pioniere dell’epoca dei conservatori alla Ronald Reagan, è un americano fortemente individualista che vuole lo Stato fuori dai piedi e basta. L’isolazionismo è la naturale conseguenza del fenomeno.
Attenti, ha ammonito Brooks, state dimenticando che il pensiero conservatore si poggia sull’idea di “comunità”, non sull’individualismo esasperato. Ricordare l’11/9 e i sacrifici che portò con sé, da questo punto di vista, potrebbe aiutare a recuperare la giusta prospettiva.