Il Papa è stato in Libano meno di tre giorni. Il suo viaggio si è svolto in circostanze complicatissime. È difficile pensare che l’escalation di violenze, iniziate con l’assalto all’ambasciata Usa al Cairo e l’uccisione dell’Ambasciatore a Bengasi, sia causalmente coincisa con la presenza di Benedetto XVI in Medio Oriente. Il film che offende Maometto e che è stato preso a pretesto per gli attacchi, infatti, circolava già da settimane su internet. E Al Qaeda, le cui “quotazioni” erano in ribasso, ha avuto un’occasione per ritornare protagonista.
Il Santo Padre è atterrato a Beirut mentre tutto il mondo arabo tornava a incendiarsi. La nuova instabilità si aggiunge a quelle che già caratterizzano la regione negli ultimi mesi. Il Libano continua a ricevere i profughi della guerra civile siriana. Il regime del sanguinario Bashar al Assad continua a restare in piedi grazie all’appoggio dell’Iran sciita che sostiene anche Hezbollah, partito e organizzazione armata libanese.
La minaccia di una nuova guerra tra Iran e Israele è più che semplice retorica. L’Iran continua a cercare di ampliare la sua sfera di influenza in aperto conflitto con l’Arabia Saudita sunnita che continua a distribuire petroldollari. Si tratta di scontri geostrategici che aprono mille interrogativi sul futuro della cosiddetta primavera araba. Il desiderio di libertà che ha percorso solo alcuni mesi fa l’area araba è ora messo in dubbio da numerosi interrogativi. Uno su tutti: i governi islamisti di Tunisia ed Egitto sono un freno all’integralismo o la loro ambiguità è una maschera che finirà per alimentare nuove dittature?
La presenza del Papa in Libano ha provocato in poche ore qualcosa di sorprendente. Sunniti e sciiti, i “fratelli” che da secoli si contendono il territorio, si sono trovati d’accordo su una cosa. Mohammed Rachid Kabbani, il gran muftì sunnita libanese, infatti, dopo aver ascoltato il Papa ha assicurato: “Noi musulmani consideriamo qualsiasi aggressione contro un compatriota cristiano al pari di un’aggressione contro tutti i musulmani”. Le affermazioni dei leader sciiti sono andate nella stessa direzione. Hussein Hajj Hassan, ministro di Hezbollah, ha sostenuto che il Libano è una porta per il dialogo tra Islam e cristianesimo. E il deputato Ali Khreiss, del partito Amal, l’altra formazione sciita del Paese, ha evidenziato che il Medio Oriente non può sopravvivere a prescindere dalla coesistenza di islamici e cristiani.
Questo riconoscimento del valore della minoranza cristiana per i paesi musulmani è decisivo. Ma non è solo un certo tipo di Islam che minaccia l’esistenza di queste minoranze cristiane. È anche un certo tipo di cristianesimo, astratto e astorico, animato dal protestantesimo statunitense, a mettere in pericolo la presenza della Chiesa in quelle zone. La guerra in Iraq e la successiva fase di ricostruzione del Paese costituiscono un cattivo esempio di intervento in nome dei valori dell’Occidente contro l’origine stessa di questi valori. L’origine della fede infatti è stata un avvenimento e le Chiese orientali ci ricordano che solo un avvenimento può continuare a mantenere vivo il cristianesimo. I cristiani del Medio Oriente sono una comunità di 11-12 milioni di battezzati che, secondo alcuni calcoli, potrebbe ridursi a 6 già nei prossimi anni. La persecuzione e la mancanza di intelligenza di alcune politiche occidentali stanno accelerando questo processo.
“Cari amici”, ha ricordato il Papa ai 30 mila giovani accorsi nel piazzale antistante il Patriarcato maronita di Bkerké, “voi vivete oggi in questa parte del mondo che ha visto la nascita di Gesù e lo sviluppo del cristianesimo”. Il Santo Padre ha voluto sottolineare il valore della presenza della Chiesa nella terra di Cristo. E abbiamo potuto vedere come questa concezione della fede abbia permesso a Benedetto di mostrare un’audace intelligenza sulle intricate sfide del mondo arabo. Molti nel mondo cattolico, di fronte agli interrogativi sollevati dalle nuove rivoluzioni, si limitano a dire che le cose andavano meglio quando c’erano dittatori come Mubarak a mantenere un minimo ordine. Tuttavia, il Papa ha detto che la primavera araba – espressione che ormai ha fatto sua – è stata molto positiva. Abbiamo sentito Benedetto simpatizzare con il “desiderio di maggiore democrazia, maggiore libertà, di maggiore cooperazione, di una rinnovata identità araba”.
Ancora una volta il Papa ha parlato della possibilità di una convivenza e di un dialogo, in una società plurale, tra cristianesimo e Islam. Una correzione anche per un certo mondo cristiano che si è lasciato dominare dalle tesi dello “scontro di civiltà”. Si è detto che l’intervento di sabato del Papa davanti ai membri del Governo e ai rappresentanti della vita sociale libanese è stata una “guida” per la convivenza tra cristiani e musulmani, un vademecum per costruire la pace. Non è un’esagerazione. Il Papa ha proposto la conversione come risposta alla sfida sociale e politica di costruire una società plurale e pacifica.
E la conversione di cui ha parlato è l’esercizio della libertà di riconoscere la traccia che c’è nel cuore dell’uomo: “Lo spirito umano ha il gusto innato del bello, del bene e del vero. È il sigillo del divino, l’impronta di Dio in esso! Da questa aspirazione universale deriva una concezione morale ferma e giusta, che pone sempre la persona al centro. Ma è solo nella libertà che l’uomo può volgersi verso il bene”.
È proprio questa traccia comune al cuore di tutti gli uomini che rende possibile il dialogo nella società plurale, con la consapevolezza “che esistono valori comuni a tutte le grandi culture, perché sono radicati nella natura della persona umana. Questi valori, che sono come un substrato, esprimono i tratti autentici e caratteristici dell’umanità. Essi appartengono ai diritti di ogni essere umano. Nell’affermazione della loro esistenza, le diverse religioni recano un contributo decisivo”.
Tutta la forza del cambiamento dunque è nella persona e nella sua libertà, perché “il male non è una forza anonima che agisce nel mondo in modo impersonale o deterministico”. E l’Islam religioso non è un nemico, ma un alleato: “Dobbiamo dunque unire i nostri sforzi per sviluppare una sana antropologia che comprenda l’unità della persona”. Un metodo apparentemente fragile ma invincibile.