Dovessi descrivere la nostra epoca, la descriverei come l’era dell’irriverenza”. A dirlo è George Steiner ne “La lezione dei maestri”. Probabilmente questa semplice frase sintetizza bene i motivi per cui negli ultimi giorni, come era già successo nel 2005, ci siamo ritrovati di fronte a un turbine di furia e sangue dopo la pubblicazione della vignetta su Maometto sulla rivista francese Charlie Hebdo e la diffusione dei fotogrammi dello pseudo-film “L’innocenza dei musulmani”.

Per poterci capire meglio mettiamo bene in chiaro tutti i termini della questione. La violenza scatenata da alcuni gruppi radicali nei paesi musulmani non è giustificabile. Non c’è proporzione tra un’offesa religiosa e la vita. Né la morte, né la violenza fisica o verbale, sono giustificabili in nome della religione. Detto questo, tuttavia, si devono fare i conti con il modo in cui si sta esercitando la libertà di espressione e ci si deve domandare che cosa voglia effettivamente dire tutelare la libertà religiosa.

Già quando scoppiò in precedenza in Danimarca un altro caos per le vignette su Maometto, l’allora primo ministro danese spiegò che “la tendenza a sottomettere tutto a un dibattito critico è ciò che ha condotto al progresso della nostra società. […] Questa è la ragione per cui la libertà di espressione è così importante. E la libertà di espressione è assoluta”. Questo, però, non è vero. Praticamente in tutti gli ordinamenti giuridici occidentali, infatti, si stabiliscono dei limiti, in molti casi penali, all’esercizio della libertà di espressione quando essa entra in conflitto con la libertà religiosa.

Per esempio, l’articolo 510 del Codice penale spagnolo riconosce due limitazioni tipiche: il cosiddetto Hate speech, ovvero quelle dichiarazioni che incitano all’odio, e l’ingiuria. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo “oscilla” un po’ sui limiti, ma non tollera né l’ingiuria, né le rappresentazioni grafiche offensive e gratuite, tra cui le scene sessualmente provocanti.

Negli ultimi anni, si sta producendo in seno alle Nazioni Unite un interessante dibattito giuridico. Molti Paesi a maggioranza islamica stanno promuovendo, attraverso ciò che gli esperti chiamano soft law, la tutela contro la diffamazione religiosa. La prima iniziativa in questo senso è stata presentata all’Onu nel 1999 e diverse proposte si sono susseguite con un ritmo crescente dopo le reazioni all’11 settembre e il primo caso delle vignette. Si è giunti così alla risoluzione approvata dall’Assemblea Generale il 17 dicembre 2007 contro la diffamazione. La prospettiva adottata è innovativa perché non si cerca tanto di proteggere la libertà di una persona dall’istigazione all’odio e dalla discriminazione, quanto il sentimento di una confessione religiosa; un fatto, questo, che introduce una prospettiva comunitaria.

La reazione di un certo mondo liberale a questa novità è stata ben illustrata da un editoriale dell’Economist: “Non è possibile proteggere sistematicamente una religione e i suoi seguaci dalle offese senza infrangere i diritti individuali”. Certamente ci sono dei pericoli. Qualcuno potrebbe infatti pretendere che la protezione dalla diffamazione possa significare che le diverse esperienze religiose non debbano più essere sottomesse alla “purificazione della ragione” (termine di cui spesso parla Benedetto XVI). E questo sarebbe inammissibile. D’altra parte, questi pronunciamenti sono fortemente appoggiati dal Pakistan che ha, nel suo ordinamento, una legge antiblasfemia, lo strumento grazie al quale i cristiani sono perseguitati. Il mondo del diritto si trova pertanto di fronte a un’interessante sfida: raggiungere un’adeguata protezione, anche al di sopra dei singoli ordinamenti penali, della religione come fenomeno sociale e comunitario. Nel mondo del XXI secolo, infatti, le religioni acquistano sempre maggior peso.

In ogni caso, però, non è detto che l’esercizio della libertà individuale, sia di pensiero che di espressione, implichi in qualche modo l’offesa religiosa. Chi pubblica vignette su Maometto o produce video ritenuti offensivi dall’Islam dimostra un’irresponsabilità gigantesca. Le vittime di queste “trovate” sono le minoranze cristiane che vengono perseguitate nei paesi a maggioranza musulmana.

La supposta difesa di una libertà astratta da parte dei vignettisti non tiene in considerazione la libertà reale e storica di coloro che verranno uccise nelle loro chiese. Per troppo tempo abbiamo assistito a una generalizzata demonizzazione dell’Islam, in nome di un “orgoglio occidentale” che, senza fare distinzioni, disprezza tutto quello che ha a che fare con i seguaci di Maometto. Ma ora dobbiamo superare le semplificazioni e riconoscere, come ci ha insegnato la primavera araba, che nell’Islam ci sono molte anime: l’integralismo, il jihadismo, i giovani e le classi medie che aspirano alla democratizzazione, l’Islam del popolo che è realmente religioso, ecc.

Per una certa mentalità giacobina, la libertà di espressione scade inevitabilmente nel conflitto. È una caricatura della libertà. È un modo di pensare che si supera soltanto facendo i conti con quello che ci succede nella vita quotidiana. Se sottomettessimo la ragione all’esperienza sarebbe facile riconoscere che tutte le libertà non sono altro che l’espressione del desiderio della maggior soddisfazione possibile. Questa ricerca – burning desire la chiamavano gli U2 in una delle loro più memorabili canzoni – è ciò che unisce quello che è diviso e che permettere di esercitare l’irrinunciabile diritto alla critica che la ragione esige senza ferire nessuno.

Non è necessario offendere, né irriverenti per essere intelligenti. Tutti sono amici, perché tutti hanno qualcosa da insegnare nel mio libero e arduo cammino di conoscenza della verità.