È tristemente normale che il dibattito culturale estivo, salvo poche e lodevoli eccezioni, sia di bassissimo livello, poco più sopra (e a volte sotto) il limite della futile chiacchiera. Così nel tempo libero che si sarebbe potuto dedicare a qualche saporosa riflessione ci sono stati propinati insipidi saggi sul valore dello sport olimpico, sul solito libro di successo che titilla più il testosterone che il cervello, sul significato simbolico del fatto che un rampollo reale è stato fotografato nudo ad una festicciola, eccetera.
Forse perché esausti per tanta superficialità, molti autorevoli commentatori si sono buttati su una breve frase pronunciata da Benedetto XVI all’Angelus del 26 agosto. Commentando l’episodio evangelico degli apostoli costernati di fronte a Gesù che ha parlato di «mangiare la sua carne e bere il suo sangue», il Papa ha accennato a Giuda. «Gesù sapeva che anche tra i dodici Apostoli c’era uno che non credeva: Giuda. Anche Giuda avrebbe potuto andarsene, come fecero molti discepoli; anzi, avrebbe forse dovuto andarsene, se fosse stato onesto. Invece rimase con Gesù. Rimase non per fede, non per amore, ma con il segreto proposito di vendicarsi del Maestro. Perché? Perché Giuda si sentiva tradito da Gesù, e decise che a sua volta lo avrebbe tradito. Giuda era uno zelota, e voleva un Messia vincente, che guidasse una rivolta contro i Romani. Gesù aveva deluso queste attese. Il problema è che Giuda non se ne andò, e la sua colpa più grave fu la falsità, che è il marchio del diavolo. Per questo Gesù disse ai Dodici: “Uno di voi è un diavolo!”».
Si è subito scatenata la ridda delle chiose più o meno erudite. Non penso che si tratti semplicemente di un escamotage per uscire da un’inquietante assenza di pensiero «alto», che guarda alle cose «ultime». Ritengo, piuttosto, che abbia ragione Gustavo Zagrebelsky quando scrive: «Il “caso Giuda” intriga tutti coloro che cercano in Giuda tracce di qualcosa che potrebbe sonnecchiare in ciascuno di noi». Peccato che poi l’articolo non si attesti su questa intuizione e finisca per sciogliere il problema nell’infinità delle interpretazioni più o meno estrose che sono state date della figura del traditore per antonomasia. Invece essere Giuda è una possibilità che non tanto sonnecchia in ciascuno di noi, ma è in noi ben radicata e attiva. Per cogliere il nocciolo della questione il Papa mette a confronto Giuda con Pietro e cita sant’Agostino: «Vedete come Pietro, per grazia di Dio, per ispirazione dello Spirito Santo, ha capito? Perché ha capito? Perché ha creduto. “Tu hai parole di vita eterna”. Tu ci dai la vita eterna offrendoci il tuo corpo [risorto] e il tuo sangue [Te stesso]. “E noi abbiamo creduto e conosciuto”. Non dice: abbiamo conosciuto e poi creduto, ma “abbiamo creduto e poi conosciuto”. Abbiamo creduto per poter conoscere; se, infatti, avessimo voluto conoscere prima di credere, non saremmo riusciti né a conoscere né a credere».
Qualsiasi possa essere la causa scatenante il tradimento finale, il peccato di Giuda ha la sua origine nel fatto che non ha «creduto», non si è implicato il quello che vedeva e i cui orizzonti superavano però la sua capacità di «conoscere», riduttivamente inteso come «comprendere», cioè di racchiudere dentro limiti predefiniti, quelli della valutazione politica ad esempio.
Così Giuda non ha potuto conoscere neppure l’eccedenza supremamente incomprensibile che sarebbe stato il perdono del suo peccato. Pietro, invece, che pure aveva «tradito» il Maestro di fronte a una servetta, ha creduto all’incredibile possibilità del perdono – «uscito fuori pianse amaramente» – e perciò ne ha «conosciuto» l’insuperabile tenerezza.