Da qualche anno insegno religione agli studenti del quarto anno di scuola superiore, che in America è l’ultimo. Una delle prime domande a emergere è quella sul rapporto tra fede e scienza. Quando chiedo ai ragazzi cosa ne pensano, le risposte sono varie: c’è chi vuole sapere cos’è la fede, chi vuole scoprire se c’è qualcosa in comune tra fede e ragione, chi parte da un dubbio e chi da una certezza, chi non sa cosa pensare. A proposito della scienza, la risposta più frequente è che è “una grande cosa”, sulla quale hanno “molte aspettative”.
La questione delle aspettative è un buon punto di partenza per iniziare a ragionare. Se c’è un’aspettativa significa che aspetto, che desidero, che voglio qualcosa. Scienza e fede sono risposte ad una domanda di significato. Se si considerano come risposte irriducibili, che si escludono a vicenda, il conflitto è inevitabile: gli “atei” partono da ciò che misurano e i “religiosi” da ciò che è stato detto loro, ma nessun dialogo è possibile.
Quando però la domanda non si ferma a ciò che misuro o a quanto mi hanno detto, quando cominciamo a pensare a quello che desidero, allora il conflitto si stempera.
La sfida più grande è invitare a pensare. Sarebbe più facile dare una risposta precostituita, ma questo non è il livello a cui voglio portare i ragazzi. Molti di loro si trovano per la prima volta davanti al loro desiderio: di scoprire le ragioni delle cose, ma anche il significato della vita. E questo desiderio è esattamente ciò che unifica scienza e fede. Entrambe sono doni che non possediamo totalmente. La scienza è lo scoprire qualcosa di dato nel mondo fisico e nel mondo del pensiero, e la fede è lo scoprire come Dio sia presente e come sia maestro e compagno nella giornata e nella vita. In questo modo, anche gli studenti più scettici vedono che il punto di partenza ha una sua attrattiva ed è un’unità. E la nostra esperienza, a cui possiamo tornare ogni volta che abbiamo dubbi, ci guida in questi due fiumi, in parte ignoti, eppur navigabili.
Un giorno, quando un ragazzo voleva dimostrarmi che solo la scienza ha diritto di esistere e che tutto è misurabile, ho lasciato cadere un libro sul suo banco. Un po’ teso, mi ha chiesto perché l’avessi fatto. Ho rovesciato la domanda chiedendogli come mai si aspettava una risposta da me e non dalla forza di gravità. Lui ha capito che c’era in gioco qualcos’altro che dalla scienza cominciava, ma che non poteva essere ridotto ad essa. Ha riconosciuto che l’orizzonte dell’aspettare, del desiderare, ha una dimensione che va ben oltre.