Casa nostra è su una collina, da cui si vede un piccolo borgo romano di altri tempi con una parrocchietta dedicata a santa Gemma Galgani. Quando ero seminarista, una volta alla settimana, più o meno, scendevo nella valle frammezzo, piena del traffico pericoloso e rumoroso della via Boccea, per risalire l’altro lato fino alla chiesa. Suonavo il campanello e aspettavo qualche minuto mentre arrivava il padre Anselmo, il mio confessore, vecchio prete con la tonaca lisa. Poi ci mettevamo nel confessionale e raccontavo.
Se le parole stentavano a uscire, il padre esortava: «Su, che non c’è d’avere paura! Io sono vecchio, non mi ricorderò di niente. E Dio non vede l’ora di perdonarti. Basta che tu dici umilmente “ho fatto questo, ho fatto quello, e non lo voglio più fare”. Allora?».
Oppure se mi dilungavo troppo, quasi scrupoloso, mi interrompeva: «Va be’, lascia stare, che il buon Dio conosce queste cose e ora te le perdona. Ti assolvo nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo. Ora mi raccomando» – e qui prendeva le mie mani nelle sue, calde, rugose, con la pelle secca da uomo anziano – «ama la Madonna, e falla amare!».
Adesso padre Anselmo ci aspetta di là, all’altro lato della morte. Egli mi ha insegnato a vivere la confessione come una forma di preghiera drammatica, semplice, liberante. È l’incontro con Gesù. È l’incontro con quello sguardo sconvolgente che nello stesso istante perdonava, ammoniva e consolava. Alla donna adultera, di cui parla Giovanni nell’ottavo capitolo del suo vangelo, Gesù dice: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
È un gesto così luminoso. Basta riconoscere la semplice realtà del peccato, chiedere il perdono, e andare avanti con passo rinvigorito sulle strade della vita.
Spesso si sente un’obiezione a questa dinamica fanciullesca: il fatto che il perdono ripetuto tenda a ridurre la serietà del peccato. Anche fra i primi padri della Chiesa c’era questa obiezione, e la confessione come la conosciamo noi ha avuto bisogno di qualche secolo prima di emergere pienamente alla luce.
Eppure un padre o una madre sa che è giusto così. Certo, il perdono non è arrendevolezza, non deve essere dato per scontato. Ma senza di esso un figlio non può crescere, e non si può mai dire quante volte occorreranno. «Sette? Ti dico: settanta volte sette», disse Gesù.

Un’obiezione più drammatica ancora è la disperazione strisciante che può insinuarsi nel penitente: «Tanto so che rifarò la stessa cosa, tanto non ce la faccio a cambiare…». Penso che qui si veda in modo chiarissimo la pedagogia di Dio. Per Lui l’importante non è tanto la sequela della legge. Se avesse voluto un popolo perfetto, sarebbe stato ben in grado di crearlo. A Lui sta a cuore l’adesione libera, ed è disposto ad accettare tanti sbagli sulla strada che porta all’amore libero, all’accettazione libera della nostra dipendenza da Lui. Certamente, lasciati alle nostre sole forze, non siamo in grado di cambiare molto. Ma a Dio tutto è possibile. Ritornare a confessarsi, inginocchiarsi, riconoscere il male fatto e desiderare di cambiare, è il gesto che apre il cuore alla grazia di Dio. Lui, sì, può cambiarci. 
Una bellissima pagina verso la fine di Dottor Zivago riporta una frase che dice Maria Maddalena in una preghiera ortodossa: «Sciogli i miei debiti, come io sciolgo i miei capelli». Immaginiamo l’elegante semplicità delle mani di quella donna mentre rilascia la sua chioma fluente, che cade liscia, senza nodi. Così veniamo sciolti dai nostri peccati, ogni volta che lo chiediamo.