Se troverà conferma la notizia del passaggio sotto controllo francese di Kidal, l’ultimo centro di un certo rilievo del Nord Mali che era ancora in mano agli insorti, si potrà dire che, almeno per il momento, tutto è bene ciò che finisce bene. Nel Mali, da giugno in preda della guerra civile, l’insurrezione jahadista è stata sbaragliata in poche settimane da una spedizione militare francese. Frattanto alle forze dispiegate dalla Francia si sono aggiunti nuclei di specialisti dell’esercito britannico ora stanziati nel vicino Senegal e nella capitale maliana Bamako mentre gli Stati Uniti hanno ottenuto nel vicino Niger la concessione di una base per il lancio dei loro “droni”, gli aerei da ricognizione e da bombardamento senza pilota già tanto utilizzati in Afghanistan e in Pakistan. E’ vero che mentre queste operazioni erano in corso unità di irregolari di analogo orientamento sono riuscite ad occupare l’importante centro per l’estrazione del gas naturale di Is Amenas, situato in territorio algerino a poca distanza dal confine con la Libia, ma poi ne sono state con successo ricacciate dall’intervento delle forze armate di Algeri, anche se al prezzo della morte di un numero notevolmente elevato di ostaggi sia autoctoni che straneri, tra cui parecchi occidentali. Su questo cruento episodio è però subito calato un velo mediatico planetario.
Pochissime immagini di repertorio, nessun invio di troupes televisive delle grandi reti, niente drammatiche immagini di fotoreporter d’assalto e nessuna diffusione di quegli sciami di video-riprese e di foto fatte con i telefonini che oggi di solito in casi del genere comunque non mancano mai. D’altra parte anche la “copertura” giornalistica dell’avanzata del corpo di spedizione francese nel Mali viene affidata a corrispondenti che ce ne parlano da Nairobi, da Dakar e da altre città che hanno il vantaggio di fare colore perché sono africane, ma lo svantaggio di essere spesso più lontane dal teatro degli avvenimenti della stessa Europa. Per tanto così sarebbe meglio che gli inviati restassero a casa loro o al massimo ci parlassero da Parigi dove alle conferenze stampa dei portavoce ufficiali dallo stato maggiore delle forze armate francesi si può assistere di persona seduti su comode poltrone.
Per il momento dunque agli esiti squilibranti provocati nella regione sahariana della liquidazione di Gheddafi si è data una risposta militare che ha funzionato. Sarebbe però meglio non dimenticarsi mai che, anche quando nell’immediato può sembrare (e persino essere) una buona soluzione, a lungo termine questo genere di risposta non risolve mai nulla. Si impone allora, alla scala europea per quanto ci riguarda, un progetto politico per il Sahara che finora non c’è. E non si riuscirà nemmeno a immaginarla finché non ci si sarà resi conto che il Sahara è un mare interno, un “mare mediterraneo” fatto di sabbia invece che di acqua.
Per decine di secoli, fino a quando le potenze atlantiche europee non spostarono le vie del commercio intercontinentale dalla terra ferma agli oceani, il Sahara fu un grande crocevia di itinerari che collegavano tra loro le città-emporio situate ai suoi margini, ovvero per così dire sulle sue rive. Dal secolo XVI in avanti questa rete di collegamenti perse peso fino a divenire un fenomeno magari affascinante ma residuo. Oggi tutto ciò sta rinascendo, e non solo grazie agli idrocarburi; come d’altra parte sta rinascendo anche il Mediterraneo. Viste in tale prospettiva, le regioni litoranee del Nord Africa appaiono come un lungo e cruciale istmo fra due “mari mediterranei”: quello d’acqua, il Mediterraneo propriamente detto, e quello di sabbia, ovvero il Sahara. La ricorrente turbolenza di queste due aree merita di non venire equivocata: forze convulse e instabili riempiono a modo loro le regioni cruciali del mondo che la politica a fini di bene comune trascura. I predoni, i pirati e i contrabbandieri si impadroniscono delle vie di scambio vitali che il commercio legittimo ignora o da cui gli Stati pretendono di tenerlo lontano. E’ urgente dunque elaborare e attuare una positiva politica euro-sahariana, necessario complemento di un’analoga politica euro-mediterranea. Per adesso, ahimè, non c’è né l’una né l’altra.