Non ci può essere soluzione di continuità tra la dimensione istituzionale e quella politica, tra le regole che governano lo scontro degli interessi e gli interessi stessi.
La presa di distanza dei ministri pidiellini del governo Letta dalla decisione di Berlusconi manifesta, tra i molti elementi che l’hanno mossa, anche la giusta istanza – molto comprensibile per l’elettorato – che le decisioni collettive siano oggetto di discussione, di confronto tra le diverse posizioni in causa e di seri tentativi di composizione, secondo le logiche che governano la democrazia e che si riflettono nella compagine istituzionale.
Nonostante il molto scetticismo che circonda la riflessione sulla democrazia, vi è un senso ultimo che ce la fa considerare – secondo il noto aforisma – il sistema peggiore di governo, eccetto tutti gli altri. E democrazia non significa solo, in una accezione formale, voti e computo degli stessi, ma discussione, razionalizzazione, argomento che – da una sostanza positiva che si vuole difendere (pensiamo a quante volte è stato evocato in queste ore il bene comune, il bene del Paese) – fa emergere tutta la possibilità di comporre interessi contrapposti e logiche di condivisione. Decidere è fondamentale, ed è per questo che, in ultima analisi, la democrazia è un sistema che mira a rendere possibili decisioni collettive, anche sgradite; ma discutere e condividere percorsi è imprescindibile affinché la decisione non si trasformi, nel breve attimo di un respiro, in una scelta arbitraria e unilaterale.
Non a caso la nostra Costituzione, oltre che all’articolo 1, evoca il tema della democrazia nell’articolo 49 relativo ai partiti politici, stabilendo che essi sono lo strumento con cui i cittadini possono concorrere “con metodo democratico” alla determinazione della politica nazionale. Ben oltre le discussioni che hanno occupato svariate pagine della dottrina costituzionalistica sul senso di questa espressione, vi è una bottom line che tutti possono percepire quando questo metodo viene violato mentre vengono prese decisioni che riguardano la politica nazionale; tale linea è quella che consente a tutti di dire che, al di là della sostanza, decidere a cena, e in pochi, sui destini – pur precari e contingenti – di un Paese, non corrisponde ad un metodo anche solo latamente democratico.
Spesso si è avuta in questi anni la percezione che la cultura politica della destra e dei moderati mancasse di statura istituzionale, che la cooptazione dominasse invece che affiancare le forme tradizionali della decisione collettiva. Di qui l’accusa al Pdl/Fi di essere un partito personale, più determinato dagli interessi del leader che dalla tensione a costruire, in forme corrette e trasparenti, politiche nazionali percepibili come bene per il Paese.
Anche la rivendicazione di forme corrette e trasparenti di decisione può contribuire ad un nuovo corso, da cui nessuno – nessuno – deve sentirsi escluso.