Una lettera 22 scritta all’Italia

In prima serata arriva la fiction su un grande industriale italiano, Adriano Olivetti. In tempo di crisi la televisione cerca modelli positivi per ispirare l'Italia. Ne parla GIUSEPPE FRANGI

Adriano Olivetti dunque sbarca in prima serata. A fine ottobre la Rai manderà infatti in onda una fiction in due serate per raccontare la vicenda umana del più mitico imprenditore italiano. Quando si parla di Olivetti in genere si prova un mix di orgoglio e di scoramento. Orgoglio perché industriali come lui, geniali e insieme profondamente attenti al fattore umano, la storia ne ha conosciuti pochissimi. Olivetti, insomma, è uno di cui, da italiani, farci vanto. Lo scoramento invece viene causato dalla distanza inarrivabile tra quello che lui è stato e quello che ha pensato e realizzato rispetto alla realtà in cui oggi l’Italia si trova. La forza di un sogno, si intitola la fiction Rai: oggi tutti sognano un “nuovo Olivetti”, ma questo sogno sembra più dettato dalla nostalgia che dalla sensazione di poter aggiornare la sua lezione. Se si legge la bella biografia che ha scritto Valerio Occhetto; o se si leggono le testimonianze di uno che l’ha conosciuto come Giulio Sapelli si capisce quanto sia affascinante e complessa la sua personalità.
Olivetti fu un personaggio profondamente drammatico, uno che sognando aveva completa consapevolezza della precarietà del suo sogno. È stato un uomo che ha sperimentato una profonda solitudine, a dispetto dell’aver fatto dell’idea di comunità l’architrave del suo agire. È stato un uomo capace di traumatiche discontinuità, come quella di immaginare una governance per la sua azienda in cui la proprietà veniva passata a vari soggetti della comunità. Era pacifico ma profondamente ansioso, perché i successi e le perfomance, straordinarie sotto ogni profilo, ottenute dalla sua azienda non erano un traguardo suffciente: nessuna azienda poteva dirsi buona se non era in grado di trasformare anche tutto il contesto.
Era inquieto in quanto consapevole di quanto fosse drammaticamente grande la sfida. Come disse alle maestranze riunite per l’inaugurazione del meraviglioso stabilimento di Pozzuoli. Per qualunque buon imprenditore quello sarebbe stato un traguardo da festeggiare. Per lui era solo un passo verso un obiettivo ancora così lontano da raggiungere. Disse in quell’occasione: «Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna».

Ecco, la grandezza di Olivetti è questa coscienza dell’incompiutezza del proprio agire. È questo utopismo che lo teneva al riparo da ogni trionfalismo. Per questo oggi più che un modello a cui guardare, Olivetti è un grande incomodo con cui fare i conti. È uno sparigliatore, un uomo capace di rompere ad ogni istante le incrostazioni dello status quo. Invece che farne un feticcio di un’Italia irripetibile e forse inarrivabile, conviene intercettarne gli infiniti suggerimenti, imparare da quella sua intelligenza sempre in azione, da quel suo spirito capace di domande totali, da quella sua profondezza di sguardo. Invece che sognare o evocare vanamente nuovi Olivetti, è meglio cercare di essere tutti, umilmente e appasionatamente, un po’ più olivettiani.

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