Recenti indagini sociologiche dicono che siamo un popolo fatto di persone simultaneamente fragili e iperconnesse. I due termini appaiono a prima vista contraddittori. Se io moltiplico le connessioni, i nessi con altro da me, dovrei essere più robusto, più sicuro; come quando si pianta un albero nuovo: quanto più ci sono pali e corde che lo legano, tanto più c’è probabilità che cresca dritto e stabile. A questo paradosso si risponde con la solita teoria della «società liquida»; sarebbe proprio la sterminata moltiplicazione dei legami consentita dalle nuove tecnologie che ne infragilisce la sostanza; avendo molte possibilità di nessi continuamente a disposizione quello che si stabilisce è considerato precario in sé, non duraturo, liquido. Col risultato, appunto, che il numero dei legami alla fine è inversamente proporzionale alla consistenza del soggetto che li realizza.

Ma non è vero che automaticamente la quantità dei nessi implichi la loro fragilità. Si potrebbe addirittura sostenere il contrario: è la fragilità con cui si concepisce anche il solo singolo legame che spinge a cercarne altri, i quali hanno la stessa fragilità e, producendo la medesima instabilità, inducono a loro volta a provarne di nuovi. Connessione, nesso, e simili derivano dal verbo latino nectere, il cui significato originale è quello di intrecciare, annodare, legare (da cui il nostro legame): tutte azioni che esigono una certa energia, lo sforzo in vista di un risultato permanente; nessuno intreccia corone di fiori perché si sfaldino al primo colpo di vento o fa nodi ad una corda perché si sciolgano quando c’è bisogno che tengano. Il nesso (o legame), dunque, implica una sorta di stabilità che sembra violare identità e libertà delle cose che si connettono (o legano). Ed è appunto la concezione della libertà come assenza di legami che ne ha prodotto la fragilità e quindi l’inutile moltiplicazione.

Ma credo che ci sia un’altra considerazione da fare. Lo smisurato allargamento dei nessi mette in evidenza che ogni legame, anche il più caro, il più stabile, non basta mai a soddisfare la ragione per cui lo si è costituito. È quello che capita all’adolescente cresciuto in una bella famiglia: proprio la forza del legame coi genitori ad un certo punto lo spinge a staccarsene, a cercare altro altrove. Qui sta il possibile inganno costituito dall’infinita possibilità di nessi offerta dalla tecnologia: che ciò che non si trova – e non si può trovare – nel legame esistente sia rintracciabile in un altro e poi in un altro ancora, all’infinito. In questo modo resta solo la delusione e quell’ultima inconsistenza che determina la fragilità. Invece, ancora una volta, non è questione quantitativa ma qualitativa. Come mai quel legame pur bello non mi soddisfa appieno? Perché in fondo è un segno, l’indice puntato verso un legame d’altra natura, di differente livello: il nesso con un destino che accomuna sia me sia ciò a cui sonno legato. È in quest’ultima comunanza di destino che ogni nesso diventa stabile e non è per nulla infragilito dal mutare delle condizioni esterne. Fino all’affascinante esperienza che anche il legame più passeggero ha il gusto della permanenza eterna.