C’è una nuova letteratura del disastro, come quella che nacque in Spagna dopo la perdita delle colonie nel 1898. Oggi non si piange per la fine dei resti dell’impero, ma si comincia a denunciare con lucidità la scomparsa dei valori che hanno reso possibile la Transizione alla democrazia e il disorientamento dominante. La colpa viene data allo scontro ideologico e alla ricchezza accumulata negli anni del boom immobiliare.
Alcuni scrittori di sinistra cominciano a parlare della mancanza di verità. Una parola che non è stata molto utilizzata finora. È il caso di José María Guelbenzu, che ha intitolato il suo ultimo romanzo “Mentiras aceptadas” (“Bugie accettate”). Nel libro si mostra una società in cui mentiamo “per difenderci da una vita difficile”. Guelbenzu, che mette al centro della sua opera la preoccupazione di un padre per l’educazione che sta ricevendo suo figlio, confessa che viviamo nello sconcerto.
In Antonio Muñoz Molina, un altro scrittore “progressista”, la coscienza del disastro si trasforma in ricordo del passato di quel “Paese reale, piuttosto austero, abitato da gente che si dedicava a lavorare al meglio che poteva, ad accudire i malati, a far nascere ed educare i bambini, a costruire cose solide”. Insomma, una nostalgia di una solidità dopo che quasi tutto è andato a pezzi.
Questo desiderio di vivere tra verità e consistenza è già un gran passo in avanti. Perché c’è ancora chi pensa in chiave tecnocratica – la chiave dominante a destra – che si tratta solo di “aggiustare il sistema”, ottenere le risorse necessarie per far quadrare il bilancio e poter così usare i soldi per ridurre il disagio sociale. È per questo che non si intraprende in profondità il cambiamento nell’istruzione e non si avvia un dibattito nazionale su come è possibile vivere insieme senza doverci difendere da un’esistenza poco sopportabile. La destra preferisce pensare che tutto si risolve con un po’ più di ordine e la sinistra, quando non scalcia per l’irrimediabile fine del welfare state, vuol ridurre tutto a questione morale, dove la soluzione è quindi mettere dei limiti all’avidità.
L’uscita da questa situazione disastrosa sarà un’illusione se si baserà solamente sull’etica, perché lo sconcerto di cui parla Guelbenzu è a un altro livello. Il momento più brillante della recente storia spagnola, la Transizione alla democrazia, cui la nuova letteratura guarda con nostalgia, non fu reso possibile da un consenso morale. C’era una concertazione, ma c’era anche dell’altro: “ragioni di vita”, certezze sulla convenienza del perdono, evidenze per stimare l’altro. Forse, senza che lo si dicesse apertamente, allora si faceva parte di una tradizione in cui si sapeva perché la vita meritava di essere vissuta. Tuttavia questo “tesoro”, così presente nel momento della rifondazione della nazione negli anni ‘70, è stato formulato in termini esclusivamente etici. È mancata una cultura all’altezza dell’esperienza e per questo non è stata trasmessa alla nuove generazioni. Le tre grandi tradizioni, quella cattolica, quella laica e quella di sinistra, sono state limitate alla sfera privata.
Non c’è altro modo per uscire dallo sconcerto se non incominciando a far affidamento reciproco sugli altri, per scoprire ciascuno le proprie “ragioni di vita”. C’è bisogno di esperienza e cultura. Vaclav Havel sarebbe stato una buona guida per realizzare questo cammino. Il ceco è stato infatti un genio nella sua capacità di descrivere l’inesorabile nesso tra l’esistenza personale e la democrazia. Per questo si domandava se per costruire un futuro più luminoso non fosse necessario partire “da qualcosa che già sta qui da tanto tempo e che solamente la nostra miopia e la nostra fragilità ci impediscono di vedere e sviluppare intorno a noi e dentro di noi”. Questo Qualcosa, nell’esperienza cristiana, è Qualcuno.