La misericordia fa paura

FEDERICO PICHETTO analizza due fatti recenti, la morte di Priebke e il richiamo di Napolitano sulle carceri, per riflettere su quegli opportunismi che sradicano il nostro Io

A volte non c’è niente di meglio di una canzone per descrivere un’epoca, un periodo, o anche solo un piccolo momento della storia. Già da più di un mese Ligabue canta alla radio il nostro opportunismo, la nostra capacità di essere “l’opinione sotto il libro paga, le figure dietro le figure, la vergogna che fingiamo di provare, la farsa, la tragedia, il forte sotto assedio”; non ho trovato testo migliore per provare a rintracciare le motivazioni ultime di quanti, guardando con paura ai mesi che stiamo vivendo, cercano semplicemente di procurarsi un riparo dietro a un solido potere per provare a sopravvivere. L’opportunismo e l’affermazione di sé segnano in maniera decisiva questo nostro autunno dal momento che in tanti, forse troppi, sono disposti a fare e a dare solo quello che hanno già deciso di fare e di dare.

Il declino dell’Italia, in questo senso, sta tutto qui: nel declino della nostra vita, dell’apertura potente del nostro Io al dono che la realtà, qualunque realtà, è. Chiusi nel nostro fortino, infatti, siamo solo ansiosi di trovare l’ombrello più resistente per mettere in salvo i nostri “piccoli possedimenti” dalla tempesta, dalla storia. Ovviamente imbellettando il tutto con un discorso semplice, corretto e pulito. Così, nel giro di pochi mesi, tutti possono diventare papisti, renziani o alfaniani, tutti possono trovare parole alla moda e convincenti per giustificarsi, per rimettersi – sempre e comunque – tra i Giusti, tra i Puri.

La paura di perdere ci blocca e ci condanna all’insignificanza della storia, rendendoci cortigiani del potere e ostaggio del vento, finti padroni di noi stessi, alla ricerca continua di una legittimazione o di una qualche piccolissima soddisfazione. Così si trasforma il nostro tempo e passano le nostre giornate: alla ricerca di una tana che, dalla politica all’amicizia, impedisca al nostro cuore di confrontarsi davvero con la vita, sentendo tutto l’amaro che, in realtà, le nostre presunte rivendicazioni di libertà hanno generato dentro di noi e dentro il segreto della nostra anima. Il sesso, il potere, i soldi, l’alcool, le scommesse, sono solo degli addentellati di tutto questo, armi necessarie per resistere all’urto del vivere fino ad ogni tramonto.

Eppure i mesi che viviamo potrebbero diventare un’occasione splendida: mai così tanti cambiamenti hanno attraversato un anno solare e mai così tante opportunità si sono profilate all’orizzonte. La crisi dell’economia, quella della politica, la fatica a vivere certi rapporti o certi dolori, come l’accento nuovo e inusuale di un Papa “venuto dalla fine del mondo” potrebbero diventare il terreno dove rischiare la nostra libertà e il nostro bisogno più vero: invece, tutto sembra soltanto l’ennesimo pretesto per metterci in fuga, per non voltarsi indietro, per procedere – anche questa volta – facendo finta che tutto vada bene, che sono gli altri, come sempre, ad essere in errore, a essere i fabbricatori del nostro male. È l’ideologia che muove certi signori della politica e dei talk show, ma forse è banalmente l’ideologia con cui guardiamo nostra moglie o con cui, fin dal mattino presto, ci alziamo e viviamo tutto. 

Come è possibile, allora, che lo scenario cambi? Che cosa possiamo sperare? Ci sono due fatti che, in questi mesi, ci stanno mostrando con forza la strada: l’appello, mal digerito dalla politica, del Presidente Napolitano a “fare qualcosa per la nostra situazione carceraria” e la morte del nazista Erik Priebke. Questi due eventi, apparentemente distanti anni luce l’uno dall’altro, ci fanno capire senza mezzi termini che cosa il nostro grande Papa ci sta dicendo in tutti i modi con la forza e la potenza dei suoi gesti e delle sue parole: infatti ognuno di noi deve decidere se porre la sua speranza nella giustizia o nella misericordia. Ciascuno deve stabilire se il Bene che attende può arrivare dalla propria giustizia, da quello che ha già scelto con la rettitudine della ragione, oppure dalla misericordia, da un Altro che c’è e che noi non controlliamo.

 

La misericordia fa paura: fa paura ai giornalisti atei devoti come ai positivisti, fa paura a chi deve decidere sul futuro delle carceri italiane come a chi si deve arrendere e demandare a Dio il giudizio definitivo sulla storia, anche su quella più tetra e più cupa del novecento nazista. Noi preferiamo la giustizia, la certezza della pena, la coerenza della ragione, il preservarsi del “già saputo” e del potere costituito. Il partito della giustizia sa quello che Dio deve fare, sa quello che il Papa deve dire, sa quello che i propri amici devono essere. Quello della misericordia, invece, non sa niente. Scommette semplicemente sull’umano, sull’amore, sulla libertà e – per questo – appare più povero, più disarmato, più controproducente.

 

Mi viene in mente quello che accadde in Palestina un sacco di tempo fa. C’erano i Farisei e i Pubblicani, gli israeliti puri e devoti. Loro sapevano quello che doveva succedere. Sapevano come le cose dovevano andare. Loro avevano “la giustizia”. E poi c’era Maria. Lei aveva solo un grande desiderio di essere donna e una sterminata fiducia in un Altro che non conosceva e che non aveva mai visto. Lei sembrava destinata a essere espulsa dalla storia e dal mondo, destinata a perdere tutto. Eppure gli uni, con la loro giustizia, seppero solo uccidere, lei – con la sua fragile misericordia – seppe solo accogliere. Quel mondo non trovò speranza nelle sentenze degli uomini, ma nelle lacrime di una madre. Ancora oggi, ognuno di noi, è chiamato a scegliere tra la strada della giustizia e quella della misericordia. Giustifichiamoci quanto vogliamo, ma su questa scelta si gioca tutto, la stessa possibilità di essere felici, di essere – ancora una volta – il Sale della Terra. 

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