La “chiusura” (shutdown) dell’amministrazione federale degli Stati Uniti, avvenuta l’altro ieri, primo ottobre, è inevitabilmente una notizia di grande effetto. Non sorprende perciò che, mentre comprensibilmente in Italia ci interessavamo soprattutto della sorte del governo Letta in realtà la prima notizia in circolazione nel mondo era quello della “chiusura” del governo Usa. Come meglio preciseremo più avanti, si tratta comunque di una chiusura parziale. E non è un fatto senza precedenti. Si verificò infatti per due volte al tempo della presidenza di Bill Clinton e durò circa venti giorni. Questa volta però avviene nel quadro di una grande crisi economica che peraltro iniziò negli Stati Uniti, anche se poi ha colpito soprattutto l’Europa.
In quest’ultimo caso è l’esito di una legge, l’American Taxpayer Relief Act del 2012 che, come dice il suo nome, a sollievo del contribuente americano ha dato al Congresso (il Parlamento) degli Usa il potere di fissare un limite a quanto il governo federale può prendere in prestito per finanziare la spesa pubblica. Il limite venne fissato nel 2011, ossia 16,4 trilioni di dollari, è stato raggiunto il 31 dicembre 2012. Da allora si è andati avanti con provvedimenti in deroga finché il Congresso ha posto fine a questa pratica aprendo una vertenza con Obama che non si è conclusa in tempo per evitare che appunto il primo ottobre, con l’inizio dell’anno fiscale, si giungesse allo schutdown. Nella prassi americana infatti, non esiste l’”esercizio provvisorio”, e ciò sia detto a testimonianza della serietà della tradizione democratica degli Stati Uniti. Nei limiti della disponibilità del gettito fiscale possibile a legislazione invariata, nella circostanza il governo federale procede dunque alla chiusura dei servizi non essenziali e alla sospensione senza stipendio dei loro addetti. Questa volta si tratta di circa 700 mila persone. Per fare qualche esempio: restano in servizio 6.186 fra i 13.814 dipendenti del Dipartimento dell’Energia; 6.186 su 40.234 di quelli del Dipartimento del Commercio; 4.481 dei 55.468 del Dipartimento dei Trasporti, 3.266 dei 24.645 dipendenti del servizio dei Parchi Nazionali. Nessuna sospensione invece per quanto concerne il milione e 400 mila militari in servizio attivo, che sono tra l’altro il grosso del personale federale (a conferma del fatto che quella delle forze armate è di gran lunga la principale competenza del governo di Washington).
Come già accadde nei due casi precedenti in capo a qualche settimana una soluzione verrà trovata, ma il fatto mantiene ciononostante il suo cruciale peso sia materiale che simbolico. Gli Stati Uniti hanno un debito pubblico che sta crescendo oltre il 100 per cento del prodotto interno lordo che già venne raggiunto nel 2011.
E per di più si tratta di un debito in larga misura con l’estero. Circa un terzo di esso è inoltre detenuto da due soli Paesi, la Cina e il Giappone (che, per parte sua, ha un debito pubblico superiore al 200 per cento del prodotto interno lordo!). Ricorderemo poi ironicamente che con un debito pubblico del genere gli Usa non avrebbero le carte in regola per candidarsi all’entrata nell’Unione Europea. E’ chiaro che comunque per un Paese imperiale come gli Usa un ingente debito estero non pesa tanto come su una potenza di altro ruolo e di altre dimensioni: finché la super-potenza resta tale non ha difficoltà a trovare compratori per i suoi titoli di Stato. Al di là di questa considerazione varrebbe però la pena di cominciare a riflettere su un fatto, ovvero l’enorme indebitamento complessivo di tutto il sistema dei Paesi più avanzati a partire appunto dal suo architrave, che sono appunto gli Stati Uniti. In sede di G8 e oggi di G 20 ormai il grande tema sono i “paradisi fiscali”, e sembra che se si riuscisse ad eliminarli i problemi dei grandi Paesi industriali sarebbero tutti risolti. Occorre invece cominciare a rendersi conto che il problema numero uno è la loro sempre più probabile bancarotta prossima ventura che precipiterebbe nel caos l’economia del mondo intero.