Con una certa tristezza, che ferisce il cuore, prendo carta e penna e scrivo “Lampedusa”. Il dolore, ancora una volta, non è per nostra sorella morte o per la certezza che, anche in questa occasione, nessuno si prenderà realmente la responsabilità per ciò che è accaduto. Non soffro neppure nel vedere l’immobilismo di un’Europa che dimentica di essere madre là dove ce n’è più bisogno: ai propri confini. E devo anche essere sincero che non mi ferisce neppure l’ipocrisia di chi non sa come gestire il dolore e allora parla e commenta. 

Niente di tutto questo mi fa venire da piangere. Alla morte, alla falsità, all’ipocrisia siamo infatti tutti abituati e stracciarsi le vesti, o mostrare un po’ di compunzione professionale, non serve a niente se non a prendere le distanze, anche questa volta, dal dolore. Forse è proprio questo il punto. Come un mendicante, che tutti scherniscono e allontanano, il dolore sta alla nostra porta e noi non lo facciamo entrare. Siamo bravi a tenerlo fuori: parliamo di premi Nobel, di ministri, di responsabilità. Facciamo di tutto pur di non farlo bussare, di non fargli prendere la parola, facciamo di tutto, insomma, purché non diventi nostro ospite. 

Come perfetti padroni di casa, vorremmo scegliere gli ospiti che la visitano e quelli che la frequentano, vorremmo non essere sorpresi da ladri e da briganti, vorremmo che la loro presenza non ci costringesse a cambiare, a essere diversi, a girare il nostro sguardo dal nulla di sempre ai volti di chi non c’è più, di coloro che con il loro silenzio ci domandano, come a Caino, “Dov’è, amico mio, tuo fratello?”. Noi non sappiamo rispondere. E poiché solo la domanda, il ripetersi di questa domanda, ci infastidisce, ci mettiamo all’opera perché nessuno possa farla, perché in giro non ci sia sufficiente ossigeno per permettere a uno, a uno solo, di chiederci la cosa più semplice: “Perché tutto questo? Tu dov’eri, fratello mio?”. 

Siamo responsabili, lo sappiamo. E sappiamo che il prezzo di questa nostra responsabilità sta tutto in quello straniero che bussa alla nostra porta e che vuole entrare. Quante volte abbiamo incrociato gli occhi di quel tale: era il tumore che non ci aspettavamo, il marito o la moglie che chiudono per sempre il matrimonio, il figlio ubriaco o in preda a mali oscuri e inguaribili, la morte di chi abbiamo amato e che non abbiamo fatto in tempo a salutare nemmeno l’ultima volta. 

Non è uno straniero quello che bussa alla porta, egli è quello di sempre. Quello che cerchiamo di allontanare con ogni scusa, dinnanzi al quale proviamo a dimenticare, a correre, a parlare. Con un unico desiderio: che stia fuori. Forse è proprio per questo che il nostro paese non cresce, forse è per questo che il nostro cuore è divorato dalla fatica e dalla noia: perché ci rifiutiamo con tutte le nostre forze di far entrare la vita. Difendiamo il nostro fortino in attesa che si allontani il nemico, senza capire – senza sapere – che il nemico è qui con noi, è dentro di noi. 

Ci spaventano i nomi con cui esso si avvicina: dolore, morte, silenzio, paura e molti altri. Preferiamo far finta di niente e continuare a festeggiare la nostra festa, dove tutto quello che succede deve lasciare il passo al nostro Io. Per questo mi viene da piangere: perché ancora una volta oggi staremo zitti negli stadi, nelle scuole, forse anche in tv. Ancora una volta parleremo di tragedie da non ripetere, chiederemo giustizia, proporremo grandezza. Ma, ancora una volta, lui – il dolore – non lo faremo entrare. 

E così aumenterà solo il nostro cinismo, la nostra distanza abissale dalla morte, dalla malattia, dagli amici. Lentamente avverrà come nell’evoluzione della specie di Darwin: alcuni di noi non riusciranno più a resistere e cederanno al fatale abbraccio del Nulla. Continueremo a dirci uomini, forse anche cristiani, ma saremo un palazzo dalle porte chiuse, pronto ad assegnare premi e a millantare soluzioni, ma indisponibile a fare un cammino. Eppure basterebbe poco: girare la chiave nella toppa della porta e aprire, finalmente. 

Tutta questa paura di piangere sul serio, di dover cambiare la nostra vita, di doverci muovere fino al centro del nostro Io svanirebbe: dall’altra parte, infatti, il dolore avrebbe il volto di un bambino di Lampedusa, incapace a parlare la nostra lingua ma solo desideroso di darci la mano. Sarebbe strano scoprire, nel calore di quella manina, che tutto quello da cui fuggiamo da un’ora, da un giorno, da un anno, altro non è che il nostro destino, quell’Amore che il nostro cuore attende e di cui abbiamo dimenticato di avere bisogno. 

Già, il bisogno: a Lampedusa la gente non ha bisogno di lacrime o di promesse, di solidarietà o di false speranze. A Lampedusa c’è bisogno di luce, quella luce che porta solo chi ha imparato ad amare tutto, anche il dolore e la morte. 

Nel silenzio di quella notte, fra le voci di chi moriva, la voce dell’ospite risuonava e nessuno la accoglieva: “Io sono con te, non temere”. Dobbiamo smetterla di avere paura, smetterla di scappare e di chiudere porte. Il momento è propizio: un volto ci aspetta. E anche se ha il nome che nessuno si attende, esso ci porta quell’Amore di cui abbiamo realmente bisogno. 

Fatelo entrare e godetevi il silenzio che regalano le lacrime di chi, finalmente, sa di essere di fronte a Dio. È un dono unico. Il dono che ci fa ogni morte quando ci restituisce alla nostra umanità. Il dono che i nostri fratelli ci offrono per ricominciare a costruire, a mendicare, a seguire. Senza questo dono saremmo spacciati, senza questo dono saremmo finiti. Eppure è ancora lì, fuori dalla porta, prigioniero dei telegiornali e delle giustificazioni di sempre, prigioniero nostro e del nostro borghesismo. Incapace di urlare e di farci uscire fuori. Così necessario e così maledettamente inquietante. 

Non abbiamo bisogno di eroi, neppure di coraggiosi. Quello che davvero cerchiamo sono uomini che abbiano un desiderio così forte di vita da aprire la porta anche alla morte. Cerchiamo mendicanti, lebbrosi, ciechi, storpi, gente bisognosa. Forse abbiamo sbagliato paese o forse qualcuno ha un bisogno da nascondere. Lampedusa, come la morte e il dolore, non sono una notizia: sono il mantello lercio e intriso di sangue di Colui che il nostro cuore aspetta. Colui che bisogna solo lasciar entrare.