Consiglio vivamente di visitare la mostra dedicata a Josef Albers, aperta al Palazzo delle Stelline di corso Magenta a Milano fino al prossimo 6 gennaio. Vi si può fare diretta esperienza dell’obiettivo che Albers (1888-1976) ha assegnato alla sua lunga carriera di docente: «Io non ho insegnato la pittura perché non può essere insegnata. Io ho insegnato a vedere». Vedere, infatti, non è cosa ovvia e meccanica; i nostri occhi non sono una pellicola fotografica che recepisce passivamente linee, forme e colori che le si pongano di fronte. Se sono distratto non «vedo» che i tratti di un volto sono atteggiati in modo tale da mostrare un dolore, invece della gioia di ieri; se sono stato superficiale non ho «visto» che il colore del cielo dei giorni scorsi aveva la miracolosa pienezza dell’estate che finisce. Vedere è dunque accorgersi di qualcosa che «a prima vista» rischia di sfuggire.
A questo riguardo le opere di Albers aprono delle piste assolutamente controcorrente rispetto alla gran pare dell’arte contemporanea, mettendo in evidenza non solo la sua profonda religiosità, ma anche la sua convinta adesione alla fede cattolica. Ci hanno, infatti, abituato a pensare che l’occhio acuto dell’artista, cercando di svelare il fondo della realtà, vede sostanzialmente il caos, la confusione, la complicazione, l’instabilità. Ecco allora che i volti sono sfigurati e contorti, i paesaggi sono sfregiati, gli stessi palazzi vengono costruiti in modo tale da essere tutti storti, squilibrati, quasi lì per cadere. Non discuto che molti artisti sinceramente «vedano» di fatto persone, cose e luoghi in questo modo. Albers, però, dice: «State più attenti, forse non state guardando bene, fino in fondo». La realtà mostra infatti un’armonia che è più profonda della confusione, un ordine più interiore del caos. Ecco, ad esempio, la serie intitolata Costellazioni strutturali: perfette linee bianche segnano sulla superficie nerissima delle «impossibili» scatole o stanze o pareti; eppure non è un gioco virtuosistico per imbarazzare lo spettatore, è piuttosto l’inno ad un equilibrio, precario fin che si vuole, ma reale.
Ma è soprattutto con la serie degli Omaggio al quadrato – Albers ci ha lavorato dagli anni 50 fino alla morte – che si raggiunge il vertice di questa affascinante «visione». Si tratta di semplici quadrati concentrici, di diverso colore, disposti con una impeccabile attenzione alle forme – «gradevole rettitudine matematica» ha scritto un critico –, ai colori e ai reciproci rapporti. Nella loro elementarità sono un cosmo, cioè il contrario del caos, un ordine perfetto, un equilibrio evidente. Guardandoli ci si sente rasserenati e sicuri, come passeggiando in una cattedrale gotica, la cui perfetta struttura spaziale è stata a lungo studiata da Albers ed utilizzata come modello per questi suoi quadri. Guardandoli ci si trova addosso lo struggimento per un’armonia definitiva, l’armonia del paradiso, della Gerusalemme celeste che, secondo l’Apocalisse, è appunto a pianta quadrata, limpida nella sua perfezione. È questa perfezione cui aspiriamo e Albers ci dice che possiamo intravvederne le forme iniziali e gli incipienti colori anche quaggiù, in questa terra apparentemente dominata dal caos. Possiamo intravvederla nei suoi quadri e poi anche nel volto incontrato o nel cielo d’autunno.