Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, diceva Seneca: il destino conduce per mano colui che a lui si affida, ma se invece uno gli si ribella, lo trascina a forza. Parlando di carcere, il destino assume le poco amichevoli (per noi) sembianze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, con i suoi pronunciamenti che incombono sull’Italia. Tra i due tipi umani, il volente e il nolente, Giorgio Napolitano appartiene sicuramente al primo. A lui spetta il primato dell’uomo politico italiano più sensibile ai temi del carcere. Non può certo essere rimproverato, l’inquilino del Quirinale, di scarsa sensibilità alle condizioni dei reclusi.



Quindi quando il Presidente parla di interventi per tutelare i più elementari diritti umani delle persone detenute, si può star certi che lo fa perché ci crede: siamo di fronte all’ultimo (per ora) dei suoi numerosi e puntuali interventi sul tema. Non a caso, come lui stesso ha ricordato, ha scelto la forma del messaggio alle Camere, mai usata da lui in precedenza. Bello anche che parli di “dovere costituzionale”, che «non può che trarre forza da una drammatica motivazione umana e morale ispirata anche a fondamentali principi cristiani».



Cosa fare dunque? Qui sta il problema. Perché svuotare le carceri italiane prima del 28 maggio 2014, quando la mannaia europea cadrà sullo Stato italiano, è relativamente facile. Il problema è come evitare che si riempiano di nuovo al più presto.

Per ridurre i detenuti, Napolitano propone tre livelli di intervento. Il primo consiste in una costellazione di provvedimenti diversi. Il presidente propone di introdurre meccanismi di “messa alla prova”, istituire la reclusione presso il domicilio, ridurre l’ambito applicativo della custodia carceraria, far scontare la pena nei paesi d’origine ai detenuti stranieri (ci si sta già provando, ha ammesso, con risultati non brillanti), modificare istituti quali la liberazione anticipata e infine depenalizzare alcuni reati minori.



Secondo livello, l’edilizia carceraria: il Presidente ha citato il Piano carceri, che si propone di creare diecimila nuovi posti nel giro di qualche anno.

Napolitano stesso però ricorda che i primi due livelli «non consentirebbero di raggiungere nei tempi dovuti il traguardo tassativamente prescritto dalla Corte europea». Ci vogliono quindi rimedi straordinari. Ovvero amnistia e indulto, provvedimenti diversi tra loro, che con il loro effetto combinato potrebbero ridurre considerevolmente la popolazione carceraria (l’indulto) e definire immediatamente numerosi procedimenti per fatti di poco conto (l’amnistia). E quindi arrivare senza danni oltre la fatidica soglia del 28 maggio 2014.

Che dire? Quando la casa brucia non c’è molto da discutere, ci si mette tutti all’opera con idranti ed estintori. E le soluzioni sono quelle indicate dal Presidente, non c’è molto spazio per voli di fantasia. Ma se si vuole che il fuoco non torni a divampare anche nel prossimo futuro, occorre porre mano con decisione ancora maggiore a «una decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione», per «offrire ai detenuti reali opportunità di recupero».

È un’opera più lunga e paziente, ma la sola che veramente conta. Napolitano cita «la non lontananza tra il luogo di espiazione e la residenza dei familiari; la distinzione tra persone in attesa di giudizio e condannati; la adeguata tutela del diritto alla salute; dignitose condizioni di detenzione; differenziazione dei modelli di intervento».

Qui è il punto vero. Se contemporaneamente ai provvedimenti di clemenza non prendono il via riforme strutturali che invertano la modalità con cui in questo ventennio è stata gestita la pena, rischiamo di rendere vano anche questo provvedimento nobile e necessario. Sottolineo soprattutto il lavoro: è il cardine fondamentale del recupero del detenuto, lo riporta al centro, gli fa riacquistare dignità, gli permette di sentirsi nuovamente uomo.

La Corte dei Conti, citata dal Presidente, ha detto chiaro e forte che in questi ultimi vent’anni gli interventi economici per migliorare la condizione dei detenuti sono stati limitatissimi. Cambiare mentalità significa, parallelamente ad amnistia ed indulto,  investire (è un investimento, non una spesa!) su lavoro, formazione ed educazione. Un investimento che si tradurrà prima di quanto si immagini in termini di sicurezza sociale e risparmi economici.